La penisola
Nel vocabolario italiano Devoto-Oli leggo la definizione che segue. Penisola: ciascuna delle sporgenze di notevoli dimensioni che articolano il contorno dei continenti.
La penisola italiana è una proiezione del continente europeo nella direzione di quello africano, quindi il suo territorio ha rappresentato la piattaforma di transito obbligato tra popolazioni di etnie e culture differenti. La collocazione intermedia ne incentiva i commerci e ne valorizza l'importanza strategica esponendo le popolazioni autoctone al controllo politico, palese o indiretto, dei popoli dell'entroterra continentale più coesi e forti etnicamente. L'influenza del genoma della tribù emerge come fattore divisivo, mai controbilanciato da un potere centrale adeguato. Il clima mediterraneo di cui usufruisce ne accentua l'appetibilità territoriale. Questa è la composita realtà nazionale.
Ciò spiega i molti pregi e gli altrettanto numerosi difetti che si riscontrano nella popolazione italica, tali da esaltarne l'indolenza nel risolvere unitariamente e stabilmente i problemi.
Quando una situazione di equilibrio mostra le sue inevitabili ulcere secondo l'alternanza dei contrari sulla quale è stato realizzato questo universo perfetto nella sua dinamica imperfetta, l'uomo è obbligato a indirizzarsi nella direzione contraria alla precedente per mancanza di alternative praticabili. La natura è maestra. Fanno eccezione i sognatori e gli imbecilli, senonché anche questi ultimi rispondono all'inevitabile meccanismo. Inflazione economica porta indubbi vantaggi temporanei fino a che è necessario virare affinché la recessione faccia la sua parte positiva riaggiustando le storture precedenti. La storia ci insegna che anche i periodi bellici sono funzionali e che quelli di pace alla lunga infiacchiscono ed esigono molte vittime.
La lettura di un articolo relativo alla proposta di classificazione degli ippodromi italiani suggerita dal settore competente (???) del Ministero delle Politiche Agricole mi costringe alle suesposte osservazioni e alla filosofia spicciola conseguente.
Intravedo infatti nelle intenzioni della burocrazia politica una volontà di cambiamento della attuale situazione fallimentare dell'ippica nazionale tale da ricordarmi la nota espressione attribuita a Don Fabrizio Corbera, Principe di Casa Salina che suona sostanzialmente così: "Cambiare tutto affinché nulla cambi nella sostanza." Il meccanismo espresso dalla consolidata formula 'io do una cosa a te, tu dai una cosa a me? è troppo ben oliato. E quello che più conta sono gli altri chiamati a sopportarne il costo. In altre parole, attribuire uguali diritti alle due categorie in cui si distribuisce funzionalmente la specie umana, impegnati da un lato e parassiti dall'altro, con il sostenere, ipocritamente, che tutti (meritevoli e profittatori) sono figli di Dio in nome di una comune origine genica. La responsabilità collettiva sponsorizzata dai secondi mi risulta la giustificazione più biologicamente imbecille e più spiritualmente fallimentare che mente umana abbia mai sostenuto. Si eviti di citare, sarebbe a sproposito, l'apologo di Menenio Agrippa che è frutto della romanità classica.
Continuo caparbiamente a sostenere la validità della concezione 'paolina' che il lavoro - quell'invenzione umana che, se buona, i ricchi avrebbero
conservato a loro stessi anziché cederla ai poveri (una sapida fiorentinata di un tal Carlo Chiarantini) - sia l'occupazione umana più dignitosa, il miglior modo per occupare il tempo di vita concesso a ciascuno. Ciò affermato senza tentennamenti, gli ippodromi gestiti da società di capitale privato che ne abbiano ottenuto l'uso in concessione dalla mano pubblica devono - non uso consapevolmente il condizionale - essere gestiti in primo luogo nel rispetto dei fini istituzionali previsti per tali impianti: adeguamenti strutturali periodici, dignitosa accoglienza verso le esigenze del pubblico, qualità delle corse programmate. Quindi, tanto per chiarire, niente ippodromi bifronti, contributi ai minimi e sub iudice. Su fondi pubblici potranno fare affidamento i soli ippodromi in grado di rispettare i parametri e indirizzare al miglioramento selettivo dei purosangue. Ad oggi solo Milano San Siro per la qualità delle corse e Pisa per i meriti ambientali ed i successi ricettivi e promozionali possiedono le potenzialità per entrare nella prevista fascia alta (impianti istituzionali). Tutti i numerosi altri dovranno sapersi autogestire o chiudere, financo l'attuale Roma Capannelle deturpato per l'insensata intromissione aliena. Rimboccarsi le maniche: imperativo presente.
E mai più l'attrattiva dell'ingresso gratuito: è l'ammissione volontaria di insufficienza dell'offerta. Come il non aver capito che la separazione in settori (tribune e prato) di accoglienza per il pubblico era un incentivo alle presenze anziché il todos caballeros attuale voluto per smanie demagogiche.
E' sufficiente una interessata visita ad una biblioteca per avere una buona 'dritta' sui principi da osservare per recuperare una sana politica ippica.
Luigi Gianoli, giornalista sportivo e critico nonché ippico di riconosciuti meriti, dava alle stampe nel 1979 uno dei suoi saggi intitolato I nuovi purosangue da Grundy a Sirlad, edito da Longanesi. Ne riporto un brano significativo:
"L'aver ridotto le distanze delle corse in Italia, nota l'americano John Aiscan, potrà avere un effetto sempre più negativo sul purosangue italiano e le corse avranno sempre meno valore indicativo ai fini della selezione del materiale (maschi e femmine) da avviare in razza. Se l'Italia vorrà riportarsi al livello internazionale dovrà ritornare ai criteri e alle regole che sono stati alla base del suo successo perché la riduzione delle distanze delle corse è sempre stata fatale ai paesi e alle razze in cui è stata adottata.
L'Italia è l'unico paese che ha ridotto drasticamente le distanze senza alcuna contropartita, cioè l'esasperazione della velocità e ii suo continuo confronto con il cronometro. E' questo uno dei molti fattori che stanno portando ad uno sbilanciamento tra corse e allevamento."
Dal come sono andate le cose, dal come le diverse componenti dell'ippica nazionale si sono adeguate, chi in un modo chi nell'altro, dal come hanno sviluppato la propria filosofia, per garantirsi l'immeritata pagnotta, in ciò favorite più che costrette dai mutamenti avvenuti nelle società civili occidentali, devo pensare che l'istruttiva pubblicazione abbia riscosso un gradimento minimale, abbandonata negli scaffali delle librerie.
Superata la fase gloriosa dello 'sport dei re' e quella non meno fortunata prodotta dalla cultura borghese l'ippica italiana avrebbe dovuto consolidare il felice momento proseguito fino agli anni '70 caratterizzati dai successi internazionali in Inghilterra, Irlanda e Francia di soggetti di primissima categoria quali Bolkonsky, Wollow, Take Your Place, Laomedonte vestiti con i colori dell'avvocato D'Alessio e quelli di Grundy, Orange Bay e Patch appartenenti al dottor Vittadini. E con gli ippodromi italiani frequentati da tanta gente animata da valori sportivi.
E' accaduto il contrario. Si è intrapresa da parte dei megafoni portavoce di altrui idee sballate, dei deboli in onestà intellettuale, degli habitué delle posizioni ipocrite una campagna volta a scegliere la via opposta rispetto a quella indicata dal Gianoli e da altri: l'adeguarsi di comodo all'indirizzo illusorio che prospettava i vantaggi, rivelatisi disastrosi nel breve volgere di anni, della riduzione delle distanze che fanno selezione. Miopia bella e buona. Fino a giungere - caso eclatante - alla decisione che più di ogni altra sta a dimostrare l'ignoranza culturale: dimensionare distanza e percorso del Derby Italiano, cioè della corsa garante del rispetto del principio fondante dell'ippica, né più né meno come la sbarra metallica che dal 1799 viene custodita al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi è a riferimento universale della misurazione metrica. Alla riflessione si è andata sostituendo l'improvvisazione e la faciloneria dei senza cultura specifica nell'affrontare le tematiche del settore; ai prodotti dell'intelligenza quelli dell'imbecillità - mi scuso per la parola forte - e della disconoscenza dei fenomeni storici e politici. Con il risultato che abbiamo sotto gli occhi: un'ippica incapace di avere un ruolo accattivante e competitivo rispetto ad altri sport com'è accaduto altrove.
Sento il dovere di citare alcune frasi estratte dagli scritti di Gianoli: "Accorciare le distanze è contro i principi basilari della selezione e del miglioramento della razza, fine supremo dell'ippica; paesi di grande tradizione ippica quali l'Inghilterra, la Francia, l'Irlanda, la Germania, l'Argentina si sono ben guardati dal ridurre le distanze delle loro corse....."
"Affrontare più lunghe distanze significa possedere maggiori capacità fisiche, e queste vengono puntualmente trasmesse ai discendenti."
E ancora: "Forlì (Aristophanes e Trevisa) il campione della generazione argentina del 1963 ha vinto il Gran Premio Internacional Carlos Pellegrini (3000 metri) oltre al Derby argentino ed è il padre dei grandi campioni e ricercatissimi stalloni: Thatch, Home Guard, Dapper, Lisadel e l'eccezionale Forego, grande campione in USA."
Le gesta di Re Artù e dei suoi cavalieri è il poco noto romanzo storico di John Steinbeck che costituisce una delle mie più frequenti e piacevoli riletture. Si tratta di una trasposizione dell'opera duecentesca di Ser Walter Malory in un linguaggio moderno che conserva il fascino della favola e delle magie medioevali nel mentre evidenzia l'immutabilità nei tempi della storia dei sentimenti e delle reazioni umane.
Vi leggo:
"..... quando l'anno era quasi trascorso, la dama Lyne condusse Ewain sul ciglio della collina, e in una valletta riparata trovarono una dozzina dei tozzi e robusti e bruni e truculenti uomini di quelle campagne, i quali avevano disposto bersagli sotto gli alberi lungo il fiume e si esercitavano con archi alti quanto loro e frecce che tiravano indietro fino alle orecchie. Le frecce scoccavano con irosi sibili, i bersagli erano piccoli e lontani ma le frecce li trovavano.
"Ecco il futuro" disse la dama "Ecco la morte della cavalleria."
" Come, che cosa vuol dire, mia signora? Questo è uno sport divertente."
" Vero" disse lei "ma dammi venti di questi contadini e io fermerò venti cavalieri."
"E' una pazzia" gridò Ewain. "Quei giocattoli sono insetti per un cavaliere armato."
"Tu credi? Dammi lo scudo e la corazza." E quando egli si fu tolto la corazza, Lyne la fece appendere ad un palo lontano cento passi. "E ora, Daffyd" ella disse "scocca otto frecce , rapidamente."
Le frecce volarono come se fossero cucite l'una all'altra, e quando la corazza venne recuperata era un cuscinetto portaspilli appiattito. All'interno, ove si sarebbe trovato l'uomo, erano penetrate quatto frecce dalla punta di ferro.
" E addio cavalieri" disse la dama. "Se volessi fare la guerra mi servirei di questi uomini"
"Non ne avrebbero il coraggio. Tutti sanno che nessun contadino può opporre resistenza a un nobile cavaliere, a un uomo nato per guerreggiare."
"Possono imparare. So bene che è d'obbligo affidare la guerra alle mani di un soldato, come la religione all'ordinamento dei preti. Ma un giorno un capo che anteporrà la vittoria al cerimoniale guiderà questi uomini..... e allora non più cavalieri."
"Quale spaventosa prospettiva" disse ser Ewain. "Se uomini di bassi natali potessero opporsi a coloro che sono nati per comandare, per darsi alla religione e al governo, il mondo intero andrebbe in pezzi."
"Così accadrebbe" ella disse. "E così accadrà."
"Non ti credo" disse Ewain. "Ma tanto per parlarne, quali sarebbero le conseguenze, mia signora?"
"Be' allora..... i pezzi dovrebbero essere rimessi insieme."
"Da bifolchi come costoro?"
"E da chi altro? Da chi altro invero?"
La profezia della dama Lyne non ha niente che la colleghi ai problemi odierni dell'ippica italiana, eppure in quanto tale cioè come profezia, un qualche insegnamento la sua lettura me lo ha impartito. Il dato è certo: in preda a rancori, invidie e incapacità prospettiche i pezzi di questo piccolo mondo sportivo sopravvivono malamente; gli inadeguati cavalieri odierni, non più campioni di nobiltà araldiche e morali, appaiono fiaccati e indecisi, incapaci di reagire come imporrebbe loro la dignità del ruolo.
La storia ci insegna che i cosiddetti bifolchi, così li ha definiti Ewain, sono imprescindibili alla funzione di rottura; poi per rincollare i pezzi si deve ricorrere ad un'altra categoria di uomini.
Il carisma di un profeta consiste nel saper prevedere e di conseguenza comunicare alla collettività le conseguenze a cui un'azione o una sequenza di azioni o comportamenti possono portare. Quando tali conseguenze sono annunciate favorevoli il profeta viene considerato indovino e gode della altrui stima e considerazione, quando sono negative egli è 'un profeta di sventura', attira fastidio, viene emarginato e financo ucciso come il corso della storia ci insegna.
Non si è giunti alle estreme conseguenze - fu il destino tragico di fra' Guglielmo Savonarola al tempo della signoria medicea in Firenze - ma neppure si è voluto dare ascolto a Luigi Gianoli e allo sparuto manipolo degli altri profeti di sventura, tra i quali non ultimo il sottoscritto, che già negli anni '70 del secolo scorso si opposero con reiterati ammonimenti al depauperamento qualitativo degli allevamenti di purosangue e al relativo degrado progressivo dello spettacolo offerto negli ippodromi italiani sempre più trascurati dal pubblico e dai gestori. L'ippica delle agenzie del gioco (sale corse) la sola gradita all'indolenza di burocrati e all'insipienza dei politici non può avere un futuro. E' indispensabile sollevare costoro seduta stante dal peso di problemi superiori alle loro capacità.