Presentazione
Fin dagli albori delle civiltà umane i colori sono stati un elemento distintivo per la varietà delle loro combinazioni e adattabilità alle forme, così da divenire il più comune elemento rappresentativo di singoli personaggi e di gruppi. Oso dire che nell’ippica la cromaticità della casacca indossata dal fantino vale tanto quanto il cavallo. A conclusione dell’anno 2016, la SIRE ha voluto mettere a disposizione dei suoi Soci un foulard con le immagini delle casacche che fecero la storia e la gloria sportiva degli allevamenti di purosangue in Italia.
E’ stato anche quello di SIRE uno stimolo a rimarcare la necessità, anzi l’urgenza, di proporre altre sfaccettature culturali dello sport ippico nel tentativo di arrestarne il declino. Da qui la nostra iniziativa, affatto ambiziosa ma convinta.
Il Corrierino degli Eoippici
Considerazioni in libertà sull’ippica dei purosangue
Periodico a cura del Clubino degli Eoippici Numero 1, 30 ottobre 2017
Redazione: Prof. Luigi Brighigna, Dr. Paolo Crespi, Prof. Alessio Papini
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Una voce in difesa dei valori morali e sportivi dell’ippica dei cavalli purosangue angloarabi; aperta a contributi esterni, gratuiti, purché accettati a insindacabile giudizio della redazione.
Eohippus
Mi sono imbattuto su Cavallo 2000 in una piacevole e dotta descrizione dell’animale preistorico dal quale abbiamo tratto il nostro appellativo di Eoippici. La si deve alla dottoressa Marialuisa Galli che ringrazio sentitamente per aver ampliato una conoscenza iniziata anni prima visitando il Museo di Storia Naturale, sezione Paleontologia, dell’Università di Firenze. La riporto integralmente.
“Era grande poco più di una volpe e, chissà perché, mi viene da immaginarlo con il mantello dello stesso colore. Era dotato di quattro dita agli arti anteriori e di tre ai posteriori e se ne andava girando, circa sessanta milioni di anni fa, per le pianure del Nord America. Il suo nome ufficiale è Eohippus e noi umani non abbiamo avuto mai il piacere di incontrarlo se non nella sua forma fossile.
Quelli che invece abbiamo avuto modo di conoscere “personalmente” sono i suoi diretti discendenti e tra essi uno in modo particolare: il cavallo.
Ma il passaggio tra i due è stato, come sempre avviene nella storia dell’evoluzione, lungo e contorto. Insomma madre natura procede per tentativi ed errori.
Il risultato finale però è stato senza dubbio eccellente. Nel corso di milioni di anni il terzo dito si è trasformato e fondendosi con gli altri ha dato vita ad uno zoccolo. Era nato il prototipo del solipede che ancora oggi noi conosciamo. Ma non è tutto.
Il metacarpo per gli arti anteriori e il metatarso per quelli posteriori si sono rinforzati e allungati fino a formare lo stinco, conferendo alla specie una delle principali caratteristiche che la contraddistingue: essere un corridore.
Questa evoluzione della struttura morfologica andò di pari passo con una trasformazione della mascella caratterizzata dalla progressiva atrofia dei canini e dalla formazione di uno spazio vuoto (le barre) tra questi e i premolari. Et voilà…il nostro equino era pronto per affrontare quella sua lunga avventura nel mondo, della quale adun certo punto anche noi umani abbiamo fatto parte.
Tutto questo però non è avvenuto senza lasciare, lungo la strada dell’evoluzione, una notevole serie di tentativi interrotti. Tra tutte una curiosità: l’evoluzione dell’Equus Caballus avvenne – udite udite - nel Nord America.
Fu durante il periodo dell’ultima glaciazione, poco prima che gli istmi fossero definitivamente sommersi, che l’intraprendente quadrupede si spostò in Europa, in Asia e in Africa ove prosperò alla grande. In America, invece finirà estinto. Ci tornerà moltissimi millenni più tardi, intorno al XVI secolo della nostra era sulle navi dei conquistatori spagnoli... Ma questa è un’altra storia.”
Il proprietario di cavalli purosangue secondo Federico Tesio
“ Un essere quasi ragionevole, o quasi irragionevole, a vostro piacere, che si contenta di tenere nelle mani un pezzo di carta con lunga genealogia, controllata al momento del connubio, il quale gli garantisce la proprietà dell’animale ma non il possesso.
Il possesso lo godono il fantino che tiene il cavallo tra mani e gambe, l’allenatore che lo plasma, il pubblico che lo gioca, l’artiere ippico che lo spolvera, l’allibratore ed il critico della stampa il quale ultimo , quando per avventura sbaglia un pronostico, viviseziona poi crudamente, per giustificarsi, l’animale e qualche volta, gentilmente, il proprietario. Il proprietario legale di un cavallo da corsa io lo posso paragonare soltanto al proprietario legale di una donna di umore faceto la quale passa il suo tempo in usufrutto agli altri.
Noi non siamo degli imbecilli, e neppure degli ingenui. Noi siamo degli idealisti viziosi senza speranza di guarigione. La molla che ci costringe e ci fa scattare è l’ambizione di vedere i nostri colori trionfare nella lotta. Una volta i colori erano dipinti sugli scudi e lottavano nelle giostre, ora sono relegati sugli sportelli delle automobili. E chi ha l’onore di possedere uno stemma che abbia combattuto nelle Crociate, oggi combatte e muore gloriosamente in guerra vestito in grigio–verde e perduto nella massa. Chi vuole avere l’emozione di vedere i propri colori trionfare nella lotta deve cercare questa emozione negli ippodromi. Questa è l’avventura che ci affascina; un’avventura che può essere tentata con successo a tutte le età, mentre ad altre avventure, dopo un certo numero di anni vissuti, è opportuno non iscriversi per non essere costretti a rinunciarvi.”
Controcorrente
Ogni sport si alimenta di record e di campioni, anzi di campionissimi. Di questi ultimi l’ippica è felicemente prodiga. Per limitarci all’ultimo mezzo secolo Ribot, Sea Bird, Brigadier Gerard, Mill Reef, Nijinsky, Shergar, Sea the Star, Zarkava, Frankel. E molti altri ne ho dimenticati. Ne consegue che gli appassionati dell’ippica non hanno bisogno di iperboli dei mezzi di comunicazione tanto i meriti di quei fenomeni sono evidenti a chiunque.
Scrivo questo per introdurre le mie considerazioni, controcorrente, sulle King George and Queen Elizabeth del 2014. Per anni questa corsa è stata la mia preferita, quella cui attribuivo il valore selettivo più alto. Sarà stato per il fascino di Ascot, o piuttosto per i diamanti messi in palio per l’occasione dallo sponsor, la De Beers, fatto sta che questo primo scontro classico tra la generazione dei tre anni e gli anziani mi entusiasmava. Ai miei occhi la corsa dei diamanti dava più prestigio al suo vincitore che non l’Arc de Triomphe parigino.
Ma i tempi mutano. Nell’ippica globalizzata il calendario non lesina corse di gruppo I, tanto che il loro fascino si diluisce in troppi rivoli. Già da qualche anno le King Gorge non sono più quelle. Bella corsa si, ma, diventati come siamo di bocca fine, non esaltante. L’ho scritto dal momento in cui Telescope è stato istallato a favorito del betting. Possibile mi sono detto. Vero è che Stoute è un maestro, come del resto Fabre, nel portare i propri soggetti all’apice della forma proprio nel giorno del giudizio - chi non ricorda il mediocre Kris Kin autore della corsa della vita nel Derby di Epsom del 2003 - ma bastava esaminare il palmares di Telescope per convincersi che si trattava di un soggetto (tardivo ma non poi troppo) da gruppo I al livello più basso, oserei dire appartenente più al gruppo II nelle annate buone. Nelle Hardwickes Telscope ha dato 7 lunghezze a Pether’s Moon che è cavallo vincitore di un gruppo III a Goodwood, ma nulla più.
Dunque Sheik Hamdan e il trainer Golden, si dice più convinto il proprietario del secondo, hanno colto come si dice la palla al balzo. Avendo la vincitrice delle recenti Oaks di Epsom, l’imbattuta Taghrooda, nella forma perfetta per affrontare una schiera di avversari non certo trascendentale, hanno mirato a ripetere le gesta di una delle più formidabili femmine di sempre, la Dalia vincitrice nel 1973 a tre anni d’età e ripetutasi l’anno successivo.
Taghrooda ha vinto le King George e convinto. Dopo aver goduto di un percorso ottimale nella posizione di retroguardia le è stato sufficiente un solo scatto per sorvolare i duellanti Telescope e Mukhadram impegnati in un tenace ed incerto duello lungo tutta la retta d’arrivo. Gli altri concorrenti erano predestinati, diciamolo forte, a fare numero e così è stato, dall’irriconoscibile Trading Leather, al bollito Magician. Mukhadram, cavallo coriaceo e volitivo, alla Persian Punch per intenderci, ha svolto fin che ha potuto il suo ruolo di valletto, ma palesemente su distanza eccedente le sue caratteristiche.
In conclusione lode a Tahgooda, ma da qui a gridare alla nascita di una nuova Zarkava ce ne corre e l’averla istallata a 3 nell’antepost dell’Arc mi pare un eccesso di fiducia e uno specchietto. Comunque sia papà Sea the Star è ben messo.
La libertà del fantino
Il fantino è libero, pertanto capace di fare le cose o bene o male. Subisce numerosi e a volte decisivi condizionamenti: per cominciare, lo stesso cavallo che monta, le cui capacità non dipendono da lui, né tanto meno la condizione atletica che l’allenatore è riuscito a dargli; non è nemmeno sua facoltà determinare la distanza sulla quale si gareggia, né lo stato della pista, che può essere asciutta o fangosa a seconda della casualità meteorologica; naturalmente, non può scegliersi in nessun modo il resto dei partecipanti, eliminando i più pericolosi: corre solo chi è capace, e sempre chi lo vuole. Dall’inizio alla fine, la corsa è piena di eventualità incontrollabili. Le gabbie di partenza, per esempio, che toccano a sorte. O l’andatura che seguiranno i concorrenti, viva e senza respiro fin dall’inizio, oppure falsamente lenta, tutta raccolta in se stessa in attesa di un finale fulminante: cosa dovrà fare, il nostro libero fantino, risparmiarsi per gli ultimi metri o impegnarsi subito con brio al fine di estenuare quelli che vogliono seguire il suo ritmo? Gli incidenti di percorso non sono meno aleatori: è probabile che si ritrovi chiuso all’interno del gruppo, ostacolato nell’attacco da cavalli già sfiniti…….. Quell’audace che fugge a varie lunghezze in avanti con un galoppo vivacissimo, è una semplice “lepre” che aiuta con il suo sacrificio qualcun altro e che subito cederà, o è il più pericoloso degli avversari? Deve attaccare ora o aspettare ancora un po’, con il rischio di arrivare tardi? Insomma, povero fantino libero: quante circostanze gli sfuggono dalle dita e lo compromettono. Tuttavia, nonostante tutto questo disordine di imprevisti di cui è così cosciente chi veramente sa vedere una corsa di cavalli, non c’è dubbio che le cose si possono fare o bene o male; in modo sbagliato o giusto: cioè in libertà. E per ciò che concerne il buon uso della libertà, poco importa che la corsa si vinca o si perda: a volte chi è più bravo a montare arriva terzo con un modesto cavallo cui le circostanze riservavano l’ultimo posto …… A proposito di bravi, chi è considerato bravo non è chi vince sempre, pretesa assurda (teologica) né chi crede di avere diritto di giustificare tutte le sue sconfitte con le circostanze, nemmeno quello che non vuole correre finché le circostanze siano favorevoli o ugualmente favorevoli per tutti, due modi per smobilitare l’impossibile. Bravo, realmente bravo, è chi non suole perdere con il cavallo che deve vincere, perché non è solito montare come uno che perderà. L’ha detto - più o meno in questo modo - uno dei grandi maestri della morale ippica dei nostri giorni, Lester Piggott.
da ‘IL GIOCO DEI CAVALLI’ di Fernando Savater, Equitare edizioni
La puledra e la trattoria
La crisi economica mordeva sempre di più tanto che falchetti, aquilotti e poiane, insomma gli uccelli rapaci in genere, volteggiavano nel cielo in attesa che per primi i poveri pensionati, perse le residue forze, si abbandonassero stremati alla loro mercè. Il sovrapporsi progressivo di confuse morali laiche, indicate come espressioni di libertà civili, su quella religiosa cattolica, era stata la premessa, inevitabile, alle sfortune materiali di una società in preda alla conflittualità. L’appropriarsi con la violenza o l’inganno delle altrui cose, era divenuto il comportamento abituale dei cittadini di quel Paese oramai trascurato da Dio. “ La legge?” “Quale legge ebbe a dirmi un gaglioffo.”
Gli unici a banchettare, come i nematodi su di un tronco morto, erano gli uomini politici e i loro tirapiedi esattori, indifferenti alle sofferenze altrui. Voraci e insaziabili, mediocri e senza cultura, costoro superavano in protervie e malefatte gli arbìtri commessi nei secoli passati. A loro si deve la corruzione dilagante, cosicché gli onesti sono come non mai relegati a gente povera, vittime destinate.
In questo fosco quadro si inseriscono le preoccupazioni personalissime, di XY, appassionato ippico. Costui ha dislocato l’unica puledra purosangue di sua proprietà, frutto di tante rinunce, presso un allevamento toscano, un tempo assai rinomato e attivo a livello nazionale. Fattrici accompagnate dai puledrini, foal e yearling, stalloni distribuiti nei vari paddock. Sembra di essere nel Suffolk inglese.
Periodicamente, assieme a qualche amico appassionato ben disposto a sobbarcarsi la guida fino all’allevamento il signor X era solito presentarsi in visita all’animale, godendo di quella breve distrazione rurale. Tanto verde e aria buona. X trovava beneficio nell’isolarsi per un paio d’ore in quella pausa distensiva tra le insofferenze della vita sociale. La gente del posto era socievole, ben disposta, nelle trattorie rustiche si mangiava bene, il personale del complesso allevatorio preparato e cordiale. X si sentiva tra amici.
Accadde che, trovandosi in pessime condizioni di salute, X fu nell’impossibilità di recarsi a controllare la crescita della puledrina. Chiese allora al personale dell’allevamento la cortesia di spedirgli via computer qualche fotografia del suo animale. Si sarebbe consolato in quel modo. Ebbe l’assicurazione richiesta, ma trascorse un giorno, poi due, tre e le immagini non arrivavano. Insolito. La segreteria dell’allevamento si prodigava nel soddisfare con efficienza i desiderata dei clienti, il caporazza non era da meno e così i lavoranti, dunque X si mise a riflettere per cercare una spiegazione di quel mancato arrivo. “Cattiva volontà?” Neppure a pensarci. Altre ragioni dovevano esserci. Sta a vedere, si disse, che la crisi dell’ippica è ben più radicata e profonda di quanto egli pensasse. Un atroce sospetto gli fece tremare i polsi: “Quella trattoria del vicino paese dove del resto il cibo è sempre stato eccellente, mica avrà inserito nel menù bistecche di cavallo e stufato alla selleria?” Nell’impossibilità di accertarsene direttamente X vide con l’immaginazione la puledra nelle mani assassine del macellaio.
Fu nel quinto giorno che giunsero le foto, facendo giustizia: la cavallina era magrolina ma graziosa ………….. e soprattutto viva.
L’Ardenza
A Livorno manco da diversi anni, quindi i miei ricordi dell’ippodromo Caprilli all’Ardenza sono per lo più sbiaditi e insignificanti, con l’eccezione di due fatti distinti e lontani tra loro nel tempo. La loro memoria è viva quanto basta a permettermi di essere veritiero. Sono la cena di commissari e funzionari del Jockey Club Italiano presso il ristorante dell’ippodromo e una corsa minore dall’arrivo non proprio schietto.
Il primo episodio potrebbe essere intitolato ‘la carica dei Commissari’. Ecco la cronaca. A chiusura di una breve vacanza a Lido di Camaiore in Versilia decisi di concedermi lo svago ulteriore di una visita all’Ardenza per le corse in notturna. Il programma fu quello di partire con un certo anticipo nel pomeriggio, così da evitare il traffico festivo, trovare un comodo parcheggio per la macchina, cenare all’ippodromo prima dell’inizio del convegno. Quando mi sedetti al tavolo non c’era ancora alcun cliente sulla veranda panoramica, ma una lunga tavola ben preparata e un plotoncino di camerieri schierato indicava l’attesa di una comitiva di rango che non si fece attendere molto. Era un gruppo di non più giovani signori: i Commissari e i Funzionari nominati dal Jockey Club per sovrintendere alla riunione estiva di corse. Ci volle poco a capire che la società Labronica veniva incontro alle difficoltà di trasferimento ferroviario che quei distinti gentiluomini incontravano per svolgere i loro uffici offrendo loro, con una signorilità che l’ha sempre privilegiata tra le consorelle toscane, la cena. Un distinto signore, il dottor Cavebondi, ricopriva allora la carica di Presidente.
Si era ancora nel periodo nel quale per svolgere quegli incarichi di controllo l’Ente Tecnico privilegiava ufficiali di cavalleria e gentiluomini di casato. Dunque il menù non poteva essere né scarso né tampoco semplice, insomma per borghesucci, e innaffiato adeguatamente. I camerieri dovevano essere all’altezza, selezionati come i vini.
Ricordo che quella sera mangiai bene e con soddisfazione, ma non saprei citare che cosa: tanto fui distratto dal seguire la vivacità e la ‘classe’ con cui le loro signorie spazzolarono le numerose portate e vuotarono le bottiglie. Evidentemente per figurare nell’elenco dei funzionari del Jockey Club si doveva possedere oltre alle qualità specifiche, l’essere buone forchette ed avere palato fine. E se la dignità austera di un Piccolomini si accompagnava ad una figura ‘large’ che giustificava l’appetito, e l’affettazione curiale di Corsi Cicori - con il quale anni dopo condivisi la noia delle trasferte in treno sulla linea Firenze-Pisa - non riusciva a celare la voracità prelatizia, non altrettanto si sarebbe detto del colonnello Tanini, segaligno e costretto a servirsi del bastone per una ferita di guerra. A dispetto del fisico minuto Tanini possedeva un appetito straripante. Mi sorprese, e ne sorrido al ricordo, il suo grido gioioso all’apparire del vassoio contenente uno dei piatti più tradizionali della cucina livornese: “ il baccalaaaa!” una incitazione all’eroismo gastronomico. Come se il vecchio comandante chiedesse al suo squadrone di seguirlo per l‘ultima definitiva carica vittoriosa contro la postazione nemica. L’abbondante sangue versato altro non era che sugo di pomodoro. Nessuno volle essergli secondo.
No, in realtà uno ci fu. L’unico che anche in quella circostanza gioiosa non perse mai il misurato ‘aplomb’ fu il Duca Gianni Dusmet de Smours. Il rango, ma più ancora la sua naturale disciplina, gli imponevano moderazione. Una figura veramente nobile.
Anche con quella spiccata propensione alla buona tavola tutti costoro erano personaggi dell’ippica che ricordo con piacere ed una punta di nostalgia. Mi auguro anzi di non essere stato scortese nel raccontare in chiave leggera l’episodio, cercando di imitare, con mediocre successo, l’umorismo inarrivabile di uno dei miei autori preferiti, Jerome K. Jerome.
da UOMINI E CAVALLI (Purosangue sul mare all’Ardenza) ed. Il Cubino degli Eoippici, 2006
Nota storica
Il termine purosangue, traduzione dal francese pur-sang, non esprime un valore scientifico bensì poggia su una solida base genealogica di iniziativa innegabilmente inglese. In realtà sarebbe più esatta la definizione di ‘cavallo di cui è certa l’origine’ o ‘di cui sono noti gli ascendenti’. Se l’aver creato il purosangue si deve agli inglesi, il contributo italiano a questa operazione ha origine nel Rinascimento quando eravamo il riferimento culturale per l’intera Europa. Fonti storiche ci dicono che durante il regno di Riccardo VIII, siamo nella seconda metà del 1400, il Marchese di Mantova, volendo sollecitare favori dal Sovrano inglese, dovette affidare al suo ambasciatore Baldassarre Castiglione due regali: una tela dipinta da Raffaello e una delle fattrici del suo allevamento di cavalli. C’è di più: Enrico, per migliorare le sue razze in Inghilterra, sollecitò dei cavalli berberi dalla Duchessa Caterina di Savoia che li aveva fatti venire dalla Spagna. Più tardi la Regina Elisabetta I incaricò il Conte di Essex di ottenere dall’Italia istruzioni sul come migliorare l’allevamento reale. Essex ingaggiò a Napoli un cavallerizzo, tale Prospero d’Osma, che redasse un testo in cui sottolinea gli errori precedenti e spiega i miglioramenti da apportare secondo le sue esperienze italiane. Federico Tesio, che è la fonte da cui ho tratto queste interessanti notizie, afferma di averne letto copia.
Si arriva al 1600, secolo nel quale compaiono i primi testi che contengono tracce scritte degli ascendenti di cavalli adatti alle corse. Nella seconda metà del 1700 è dato alle stampe l’insostituibile libro delle nascite dei cavalli, lo Stud Book, ad opera di Mr. Weatherby.
Il Museo del cavallo
La Firenze oppressa da un caldo opprimente - siamo soltanto ai primi di giugno - è posseduta, ahimè, dalle orde di turisti che rendono fastidioso il cammino per le viuzze del centro storico, irregimentati, soprattutto gli orientali, dietro al proprio tedoforo (la guida turistica munita di bandierina o ombrello) e decisamente poco disposti ad usare quella cortesia di cui li accreditavamo. Oggi non più. Non li vedi acquistare alcunché eccezion fatta per i cestini di fragole esposti dai fruttivendoli. I musi gialli ne sono come attratti, bisbigliano tra di loro ridacchiando come sciocchini, li fotografano come fossero rarità botaniche e ne ingozzano il contenuto come oche.
Sfuggendo da quella presenza lanzichenecca mi capita di percorrere il marciapiede antistante il Rettorato e alcuni edifici medicei che ospitano Dipartimenti universitari e Musei scientifici.
Giusto nel Museo di Palentologia c’è una sala che mi interessa in modo particolare. Vi sono esposti reperti, scheletri, calchi e diagrammi che illustrano le tappe del cammino evolutivo di quel mammifero, inizialmente non più grande di una pecora, il Mesohippus, che più di altri ha segnato la storia dell’uomo, ovvero il cavallo.
E’ dall’osservazione di quella raccolta scientifica che nacque in me l’idea di allestire presso gli ippodromi italiani di maggiore caratura un Museo del Purosangue, sottolineatura culturale alle imprese sportive per valorizzare quelle presenti, attraverso la consapevolezza dello snodarsi di quella linea comune tra passato e presente che riassumiamo con il termine tradizione. Direi di più: la conoscenza del passato come insostituibile propulsore verso il futuro. La sottolineatura del museo non può che essere il riconoscimento del principio di selezione quale regola basilare del cammino temporale della realtà oggettiva.
L’Ippodromo di San Siro ha il Cavallo di Leonardo, ma non basta.
Per l’odierna riunione informale del Clubino degli Eoippici ho portato come argomento di discussione ‘un museo del cavallo purosangue: come e dove.’
Inizialmente si è posta la necessità di individuare quali possano essere i nostri interlocutori pubblici. Se l’Ente Regione è sicuramente uno di questi, l’Ente Tecnico nazionale, quello che in anni passati fu il Jockey Club Italiano poi abolito da un Governo di imbecilli - lo giudicarono inutile - è ancora oggetto di ripensamenti nella mente di burocrati e politici che si barcamenano tra incompetenza e presunzione. Prigionieri di ubbie democratiche essi sono alla ricerca della quadratura del cerchio, ossia accontentare buoni e meno buoni per garantirsi il voto di tutti.
Le sezioni del museo possono essere molteplici. Nella prima possono venir compresi: i progressi nella mascalcia (dai ferri pesanti a quelli leggeri, ai correttivi); i vari tipi di staffatura e di trasmissione degli indirizzi (cinghie, briglie, paraombre).
Frustino sì, frustino no
Il frustino è un’arma in possesso del fantino il cui impiego dovrebbe vincere la pigrizia del cavallo al fine di ottenerne un maggiore impegno nella corsa, impegno per il quale la spinta delle sole braccia non è stata bastevole. Questo presuppone che il cavaliere sia all’altezza di valutare, dal respiro dell’animale durante lo sforzo, dal suo ritmo cardiaco percepibile dalle ginocchia, e da altri segnali, che il cavallo può dare di più. Altrimenti quella che può essere definita una sollecitazione vantaggiosa ai fini del risultato in corsa si trasforma in una punizione che viene imposta al galoppatore.
Per evitare ciò il regolamento delle corse di ciascun Paese si pronuncia circa il numero delle frustate consentite, non sempre uguale. In ogni caso gli animalisti sono sempre in agguato alla ricerca di visibilità per le loro stramberie. Le violazioni comportano appiedamenti pesanti e multe salate, provvedimenti che sono sempre oggetto di considerazioni di segno diverso.
Di casi del genere la storia del racing è piena. Chi non ha apprezzato l’efficacia risolutiva delle energiche ‘carezze’ impartite da due assi delle redini corte quali Lester Piggot e Olivier Peslier. Lo scorso anno un episodio coinvolse il nostro Lanfranco Dettori e Golden Horn nelle Irish Champion. Di recente Silvester De Sousa, oggetto di una pesante squalifica in Inghilterra per uso eccessivo della frusta, ha dichiarato che l’uso del frustino andrebbe ridiscusso. Non più di alcuni giorni fa Dario Vargiu recentissimo vincitore del Derby di Amburgo in sella a Isfahan, ha ammesso che sarebbe giunto secondo se nel finale non avesse superato il numero di frustate consentite dal regolamento tedesco. Come dargli torto, visto il distacco inflitto al secondo arrivato: muso.
Non c’è fantino che non sia incappato almeno una volta in carriera nelle maglie strette della norma che punisce l’uso esagerato della frusta.
La punizione, pecuniaria e/o per allontanamento temporaneo dalle competizioni, è la riposta conseguente all’aver commesso un reato sportivo. E’ tale l’aver messo in atto tutte le risorse disponibili per conseguire quello che per regolamento viene richiesto, in termini assoluti, al fantino, ovvero vincere la corsa? Indubbiamente un quesito di non facile soluzione.
Il rimedio potrebbe venire dal codificare la riduzione della lunghezza del frustino. Nel rispetto delle leggi della fisica accorciando la distanza tra l’impugnatura e l’estremità piatta del frustino la pesantezza dei colpi inferti ne sarebbe ridotta. La conseguenza normativa: nessuna limitazione nell’impiego del frustino. Gli stewards si opporrebbero respingendo la 'diminutio' al loro prestigio.
La soluzione più opportuna, ovviamente impossibile da praticare, sarebbe quella di far decidere al cavallo.
Le differenze di peso per età e per sesso. Non sono oggi eccessive?
Le Eclipse Stakes di Golden Horn sono state l’occasione per discutere all’interno del Cubino degli Eoippici sulla validità degli attuali pesi per età e per sesso nelle corse di gruppo. La corsa in discussione ha raccolto solamente cinque concorrenti, di cui tre non idonei, quindi si è trasformata in un match tra il giovane reduce dalla vittoria a Epsom , Golden Horn appunto che portava 55,5 e un anziano, The Grey Gatsby già vincitore di gruppo uno a tre anni che portava 60,5: un divario a mio parere eccessivo.
Ho chiesto ai soci del Clubino degli Eoippici, se non ritenevano eccessiva e quindi da rivedere, l’attuale differenza di 5 Kg (55,5 contro 60,5) tra il tre anni e l’anziano, specie su distanze inferiori al miglio e mezzo.
Innanzitutto i cavalli di oggi sono più precoci di prima. Poi va considerato un aspetto non secondario. Mentre il tre anni è sicuramente uno dei migliori se non addirittura la punta della sua leva, l’anziano quasi sempre non lo è stante la tendenza attuale di trasferire alla riproduzione i più quotati già al termine della annata classica. Chi rimane in allenamento a quattro anni appartiene alle seconde linee. Le Eclipse 2015 ne sono state la riprova palese. Il vincitore di Epsom, la selezione classica dei tre anni attuali, è stato affrontato da The Grey Gatsby, valido sì ma non il migliore della sua generazione, al divario, oneroso per l’anziano, di 5 kg. Andamento e risultato scontati: pur costretto a farsi la corsa il giovane ha vinto agevolmente. Lo stesso dicasi per i sessi. Quando le femmine sono fuori della norma (Zarkava, Treve) il discarico del sesso le avvantaggia.
Più difficile il discorso castroni, tuttavia non secondario come si è visto di recente con i casi di Cirrus des Aigles e di Solow.
Si impone una rivisitazione dei pesi?
Paolo Crespi ha risposto così. “Non saprei. Nello specifico caso il fatto, di cui sono sicuro, è che il tre anni (Golden Horn) è un Campione con la C maiuscola.....come si vedrà nel proseguo della stagione. Un cavallo che ha tutto, elastico, con cambio di marcia, stamina, potenza, grinta. Il quattro anni (The Grey Gatsby) è un cavallo discreto, ma limitato, come si era già visto lo scorso anno (e come Dettori e Gosden sapevano benissimo, tanto da impostare la corsa come hanno fatto.... con l’ assoluta sicurezza di disporre del cavallo migliore. Per me, il grigio ha dato veramente tutto...come si è visto negli ultimi 100 metri, nei quali era svenuto, mentre l'altro iniziava a galoppare.
Il divario di un chilo e mezzo per le femmine... ? Se si esclude UNA (o DUE) femmine all'anno....i maschi continuano a rimanere superiori come si è visto nel derby irlandese stravinto da uno che è 5 lunghezze peggio di Golden Horn e dove la vincitrice delle Oaks non è stata competitiva. Il punto, magari, è sul peso da attribuire ai castroni -ora come ora, il rating migliore al mondo appartiene ad un castrone, e la cosa è successa abbastanza spesso negli ultimi anni - anche lo scorso anno, in questa stagione.
Il peso per età è difficile, di nuovo. Certamente circolano delle simulazioni. Certamente i cavalli sono più precoci di prima. Certamente, anche, c'è l'idea che non si deve svantaggiare i più giovani (altrimenti perchè dovrebbero accettare la sfida, avendo già tante corse a loro riservate?). Certamente c'è il fatto che i migliori tre anni VANNO IN RAZZA, per cui poi i migliori tre anni dell'anno successivo...corrono spesso con "seconde scelte" dell'anno precedente - è appunto il caso di The Grey Gatsby - a meno che non siano castroni (e qua viene appunto fuori il discorso: quanti tre anni ci sono in circolazione che siano meglio del grigio di Werthemeir o di Cirrus des Aigles? A mio giudizio nel mondo possono essere solo in tre, cioè i primi due del Derby inglese e il vincitore del Kentucky Derby. Quindi mica molti! - a qualsiasi proposizione di peso.”
Controcorrente due
Per i conservatori inglesi, i Tories, non si può dire che il 2015 sia stata una cattiva annata, tutt’altro, ma le King George VI and Queen Elizabeth Stakes, che costituiscono il loro tradizionale appuntamento annuale nel turf, non hanno raccolto un campo di partenti all’altezza della tradizione. A ben vedere c’erano già stati i primi segnali rappresentati dai successi delle femmine negli ultimi due anni.
Quando si dice la cattiva stella. Prima si infortuna Telescope che non sarà un campione assoluto, ma sa dare un volto alla corsa. La presenza dell’imbattuto laureato del Derby di Epsom, per giudizio unanime giudicato imbattibile, ha tenuto lontani i coetanei limitando altresì la partecipazione dei soggetti maggiori d’età autenticamente di gruppo 1 al solo Flintshire - uno che mi ricorda Youmzain appartenendo ai sempre piazzati di rado vincenti - che gli altri anziani erano soggetti di gruppo 2. Basti leggere le prestazioni.
Poi ci si è messa nel mezzo la pioggia rendendo pesante il terreno. Colpo di scena dell’ultima ora: prima il portacolori di Abdullah, poi lo stesso Golden Horn vengono ritirati nel corso del mattino.
Nessuno avrà il coraggio o la sfrontatezza di scriverlo, ma lo faccio io: si è corso ad Ascot 2015 il più ricco gruppo 2 della storia. Condito dalla manovra acchiappacitrulli che ha fatto convergere ingenti masse di denaro su Clever Cookie, un soggetto da Ebor a York il cui solo merito era l’attitudine al terreno, la cui quotazione è scesa vertiginosamente. Per la cronaca ha sempre occupato il fanalino di coda e il solo Dylan Mouth gli è arrivato dietro sul traguardo.
Corsa monotona come può esserlo una marcia di studio, più alla francese che secondo condotta inglese, fino all’inizio della dirittura d’arrivo dove inevitabilmente i jockey con più testa, i due italiani, anzi per essere precisi i due sardi, si sono staccati in una lotta furibonda e incertissima fino sul traguardo. Lo spettacolo lo hanno recitato Atzeni e Dettori. Avrebbero meritato un dead-it. Ma che nessuno si azzardi a sostenere che Postponed è soggetto da gruppo 1.
Non pervenuto Dylan Mouth. Incolpevoli il cavallo, il fantino, l’allenatore, il proprietario. Da biasimare quei giornalisti di casa nostra che dopo il successo ai danni di una sconosciuto ‘marrocchino’ - devo al mio amico e collega universitario prof. Bruno la pronuncia con la doppia erre - hanno levato alto il grido: “all’estero, all’estero” dimostrando una miopia ippica fastidiosa.
Braque, un campione mai dimenticato
Chi sia stato il purosangue Ribot (Tenerani e Romanella da El Greco) non è un mistero per nessuno, tale è la fama che il cavallo italiano si procurò durante la carriera agonistica, nella quale non fu mai sconfitto, tanto da meritarsi dopo la seconda vittoria consecutiva nel Prix de l’Arc de Triomphe la qualifica di ‘le meilleur cheval du monde’ dalla stampa francese.
Nessun appassionato di ippica o frequentatore di ippodromi ignora altresì il nome di Nearco, non foss’altro per il presenza del figlio di Pharos e Nogara, anch’egli imbattuto nella carriera, in tutte le genealogie dei vincitori di gruppo tramite Neartic, Northern Dancer, Sadler’s Wells e Galileo in una linea che domina, potremmo dire da sempre il panorama del moderno turf internazionale fino ai nostri giorni. Di Nearco, delle sue imprese, della sua perfezione morfologica, della classe cristallina, ho per ragioni generazionali anagrafiche una conoscenza letteraria e cronachistica.
Al contrario sono pochi coloro che si ricordano di un altro formidabile purosangue uscito dalla fucina di Dormello due anni dopo il figlio di Romanella: Braque da Antonio Canale e Buonamica da Niccolò dell’Arca. Anche nel suo caso Federico Tesio fece ricorso per il nome a quello di un artista, il pittore e scultore francese Georges Braque, iniziatore assieme a Pablo Picasso del Cubismo sintetico, l’ avanguardia dell’Astrattismo.
Se Nearco fu per me l’interesse storico culturale e Ribot rappresentò il momento dell’iniziazione ippica sulle ali dell’orgoglio nazionale e dell’entusiasmo istintivo, sia pure avulzi dalla competenza tecnica non ancora raggiunta, davanti alle sue folgoranti vittorie in terra straniera, Braque è stato la passione consapevole, l’inizio di un interesse che dura tutt’ora. Incontrai Braque un mattino albeggiante in quel di Barbaricina, più esattamente nelle scuderie del Carlini, dove era stato trasferito per trascorrervi la pausa invernale assieme al contingente dei maschi della Razza Dormello Olgiata. Condotto alla lunghina dal lad passeggiava nel tondino, premessa alla consueta uscita mattutina sulle piste del Parco di San Rossore, come un principe; consapevole, così a me parve, d’essere un privilegiato. Era nel gruppo dei coetanei aperto da un anziano, ma era fuori dal gruppo che neppure un orbo avrebbe potuto confonderlo con gli altri puledri. Il mantello appena strigliato era lucido, mettendo in risalto la struttura agile e possente. Fresco di striglia l’animale si mostrò in tutti i suoi meriti, mi apparve freddo, come consapevole dei propri mezzi superiori, oggi si direbbe professionale. In sella ad un cavallo siffatto, pensai, anche uno straccione si sarebbe sentito re. Allora ero poco più di un ragazzo ed è probabile che ci fosse nel mio giudizio della suggestione, ben sapendo chi stessi osservando. Del resto Braque, per i suoi mezzi e per essere fratellastro di due soggetti derbywinner come Botticelli e Barbara Sirani, era già considerato il potenziale capofila della sua generazione, che aveva nel compagno di colori Grigoresco, un soggetto precoce presto eclissatosi dopo la sconfitta nel Parioli. E dopo il passaggio d’età ci fu la conferma dei suoi mezzi superiori: Braque rispose alle speranze giovanili facendo manbassa di tutte le prove del circuito classico nazionale (Derby, G.P. d’Italia, St. Leger Italiano) con una facilità disarmante. A queste vittorie seguirono i successi nel G. P. di Milano e in altre tre prove di minore importanza. La concorrenza non comprendeva, va detto, soggetti di qualità paragonabile: Chitet, Ismone, Etrusque e Sealieu furono di volta in volta i coetanei più validi, ma tutti inesorabilmente dispersi in pista di lunghezze. Non era un azzardo porre Braque sullo stesso livello dei campioni assoluti. Del resto la stampa tecnica internazionale lo elesse il miglior tre anni del mondo dei nati nel 1957.
Un altro Ribot era nato a Dormello? I paragoni sono sempre ardui, anche se Enrico Camici, che condusse entrambi, affermò di non aver mai richiesto a Ribot più dell’80% del suo potenziale atletico. Non dubito della veridicità dell’affermazione, ma ciò non mi esime dall’affermare che Braque fece parte di quella esigua schiera di eletti, padroni assoluti della competizione in qualsiasi momento del suo svolgimento e su qualsiasi distanza.
Angelo Garbati per anni ha avuto il compito della doma dei puledri a Dormello, quindi anche di Ribot e Braque, dei quali ha vivo il ricordo. I due, mi dice, esprimevano entrambi capacità fisiche formidabili, ma differivano profondamente nel carattere: Ribot era sempre allegro, vivace, mai stanco. E’ storia nota l’episodio della sua fuga in libertà per il Parco di San Rossore. Braque, non fu mai irrequieto, mai creò i problemi che l’altro procurava agli addetti alla sua custodia. Ma quanto a potenzialità atletiche Angelo sostiene che Braque non fu secondo a nessuno.
Le differenze del carattere tra i due si ripercuotevano nel modo di gareggiare. Mentre Ribot accettava di rimanere nel gruppo per poi alla richiesta sparare il suo imparabile allungo, la progressione inarrestabile, il motore di Braque non gradiva le marce basse, le manfrine iniziali. Se l’andatura risultava inadeguata prendeva la testa e salutava la compagnia per involarsi solitario, facendo corsa a sé incurante degli avversari. Non penso che Camici abbia mai faticato nel gestire Braque in corsa.
Una nota curiosa a proposito del campione me l’ha suggerita il marchese Niccolo Incisa. Il problema fisico di Braque erano i suoi piedi doloranti: prima della corsa bisognava ottenerne, si direbbe, un riscaldamento mediante un lungo canter. Mi viene da pensare per analogia, alla copertura termica delle gomme dei bolidi di formula uno nei preliminari della partenza.
Franco Varola nel suo ‘Il mito di Tesio’ dedica brillanti pagine all’analisi minuziosa delle motivazioni che ispirarono la filosofia del mago di Dormello nella triplice veste di allevatore, proprietario e allenatore. Una filosofia tutta improntata alla valorizzazione dei segmenti dal classico al professionale con l’obiettivo di ottenere esemplari molto robusti e di alta classe, i soli idonei ad affrontare con successo i grandi confronti internazionali quali erano allora l’Ascot Gold Cup in Inghilterra e il Grand Prix de Paris in Francia.
Con la progettazione allevatoria di Braque Tesio consegnò all’allevamento italiano l’ultimo prodotto della sua genialità.
A diminutio del valore di Braque sta un solo fattore: quello di non avere corso fuori dei nostri confini, così sottraendosi al confronto internazionale come avrebbe ampiamente meritato. Ne ignoro le ragioni: se fu fermato per incidenti - non ne ho notizia - e neppure so per quanto tempo fu impiegato come riproduttore. Una improvvisa colica, verosimilmente promossa dalla sua condizione di monorchide, ne causò la rapida morte prematura impedendogli di trasmettere all’allevamento un’eredità di qualità superiore. Certo non ha lasciato traccia significativa, così come accadde per un altro formidabile campione, il Brigadier Gerard, anche questo praticamente nullo per lo stud.
Non credo di essere lontano dal vero affermando che lo spartiacque costituito dalla morte di Tesio, con la conseguente nomina di Vittorio Ugo Penco ad allenatore privato della scuderia Dormello Olgiata, abbia negato a Braque quelle soddisfazioni internazionali che erano nelle sue effettive possibilità. Forse parve impossibile e neppure conveniente, a così breve intervallo temporale da Ribot, il sovrapporsi di un altro mito.
Concludo. All’affermazione di un turfman anglosassone “abbiamo avuto Frankel (Galileo e Kind)” non proverei nessun imbarazzo nel rispondergli “e noi abbiamo avuto Braque.”
Arrogate a Dubai
Com’era nelle previsioni unanimi della stampa tecnica Arrogate (Unbridleds Song e Bubbler) di Juddmonte (Kalid Abdullah) è uscito vincitore nella Dubai World Cup 2017 a Meydan, tanta era la superiorità che il grigio vantava sugli altri partecipanti, decisamente di meriti inferiori. Appunto per la modestia di gran parte dei soggetti in gara ad onta della dotazione stratosferica al traguardo ho giudicato la corsa tecnicamente fallita. Ne è prova il fatto che, nonostante una partenza balbettante, tale da relegarlo in una posizione arretrata e scomoda nella prima metà del percorso, Arrogate ha soverchiato, con una prolungata accelerazione poderosa, Gun Runner, il più accreditato degli oppositori, staccandolo nell’ultimo furlong da soggetto in possesso di almeno una marcia in più rispetto alla compagnia affrontata nell’occasione.
Gli altri non sono esistiti.
Voglio far notare che il valletto sul traguardo a rispettoso distacco dal facile vincitore è soggetto con spiccata attitudine al miglio e pertanto il doppio chilometro della Cup gli era già di per se indigesto. Questo per sostenere che i facili entusiasmi suscitati dal successo sono immotivati: Arrogate non esce da questo cimento con il crisma del fenomeno. Se lo è non certo per la vittoria odierna: aveva un compito facile e lo ha sbrigato da par suo, semplicemente.
Gli indubbi meriti di Arrogate risiedono piuttosto nell’aver risolto a suo favore il formidabile duello con California Chrome nelle Breeder’s 2016 e nella carriera agonistica ancora limitata da cui si è avvantaggiato il suo sviluppo fisico e mentale. Ma non lasciamoci incantare dalle dichiarazioni dei trainer del tempo presente, maestri non solo del mestiere ma anche di pubbliche relazioni e pubblicità.
Siamo all’inizio della stagione agonistica 2017 e ci saranno le occasioni per dimostrare l’accostamento ad un altro campione di Abdullah, non dico all’inavvicinabile Frankel e neppure al formidabile Dancing Brave che le vinse tutte (Craven, 2000 Ghinee, Eclipse, King George VI and Queen Elizabeth, Selected, Arc de Triomphe) tranne il Derby di Epsom dove fu battuto da Shahrastani.
Un Jack Hobbs ritrovato
Una doverosa quanto ovvia premessa. Ci vogliono buoni cavalli perché un allenatore dimostri il suo valore. Lo stesso dicasi per un fantino: è bravo se porta alla vittoria il cavallo che avrebbe perso soltanto sé montato male. Vale l’esatto contrario: i buoni allenatori e i bravi fantini fanno i buoni cavalli.
Ciò detto, John Gosden, è, tra gli odierni trainer inglesi, colui che gode del mio incondizionato apprezzamento. Dopo la morte di Henry Cecil la palma dell’allenatore migliore gli spetta di diritto per i risultati raggiunti.
Si dà il caso che Gosden sia il trainer di Jack Hobbs il vincitore del Sheema Classic 2017, gruppo I sul turf di Meydan, per i colori Godolphin. Il figlio di Halling e Swain’s Gold, secondo nel Derby inglese di Golden Horn e in seguito dominatore assoluto di quello irlandese, era accompagnato da buone voci alla vigilia, anche se la prolungata assenza dalle competizioni non era un buon viatico per il successo pieno. Di modo che il pronostico tecnico gli anteponeva il vincitore della passata edizione Posponed, l’eccellente e qualitativa laureata delle Oaks irlandesi Seventh Heaven compagna di colori dello stimato Highland Reel, anch’esso della partita.
Ai fatti Jack Hobbs ha seminato gli avversari con una retta d’arrivo volitiva e concentrata, con la sola Seventh Heaven che ha evitato di venire dispersa. Una cristallina prestazione che ci restituisce un ritrovato campione. Sheikh Mohammed Maktoum può tornare a sorridere. Quanto a Posponed, terzo sul traguardo, mi è parso mentalmente e fisicamente avviato alla futura carriera stalloniera.
Gosden ha presentato il miglior Jack Hobbs, un soggetto che necessita di essere riposato per dare il meglio di sé. Quando sarà ripresentato vedremo se questa ipotesi può trovare credito. A meno che il baio oscuro non abbia tratto gran beneficio dal passaggio d’età come non raramente può accadere e dall’uso dei paraocchi. Certamente nell’occasione ha usufruito dello stato del terreno, quello a lui più gradito. E poi la paternità di Halling è garanzia di resistenza.
Le prossime King George VI and Queen Elizabeth Stakes di Ascot nel luglio hanno già un caldo favorito.
La misura è colma: restituiteci il silenzio.
Ogni epoca, ogni momento storico ha il suo bello e il suo brutto, il suo buono e il suo cattivo. Allorché lo squilibrio tra i bracci della bilancia diviene marcato, come accade oggi, tornare all’essenziale, alle priorità autentiche e al senso della misura come costume di vita si impone. Quando ero un giovanotto, la tv era da divenire fenomeno popolare. Dominava la radiofonia. Ogni sport aveva in radio il suo cronista specializzato: Alberto Giubilo descriveva gli eventi ippici con sapienza e competenza, commenti misurati, sapeva coinvolgere con elegante ma sobria capacità descrittiva; i quasi-goal di Niccolò Carosio facevano trasalire gli animi degli appassionati elettrizzati del football; le imprese dei vari Bartali, Coppi, Magni vivevano nelle parole di Sandro Ciotti o di Adriano De Zan in tutta lo loro fatica improba. Tutte descrizioni appropriate, coinvolgimento e tecnicismo lineare, barocchismi pochi, fesserie rare.
Oggi, ahimè, la realtà è altra: al tempo disgraziato delle opinioni da bar o da massaie impegnate in cucina, per la radio e alla tv ogni sport è divenuto preda di pletoriche truppe d’assalto composte da giornalisti, commentatori, ex sportivi, tromboni. E giù blà blà insulsi, ripetizioni di pareri e ricerca ampollosa di particolari di nessun valore. Tanto per allungare i tempi delle concioni e distrarre, vorrei dire disattivare, le menti più deboli. Inconcepibile: talvolta meno numerosi gli attori coinvolti (atleti) dei commentatori opinionisti. Questi ultimi sciorinano, mi sia consentito dirlo, commenti ovvi per un cervello subnormale, imponendo all’ascoltatore una descrizione di ciò che già egli ha veduto sullo schermo o udito via etere, quindi superflua; spiegano, interpretano e spesso conversano tra loro ignorando la cronaca, contribuendo solo a distrarre e/o infastidire, con competenze di nessun valore effettivo. Aprono bocca e danno fiato al nulla. Il chiacchiericcio insistito di uno stormo di folaghe ammarate sarebbe accolto con maggior favore. Perché un semplice match sportivo non è argomento sui massimi sistemi come vorrebbero darci ad intendere costoro. Le scale dei valori sono saltate: si dà al confronto sportivo l’importanza, che so io, di una scoperta scientifica o di un conflitto armato. Decisamente siamo fuori misura e direzione.
Non esce dallo schema sopra biasimato l’informazione ippica, anzi. L’ho constatato seguendo in diretta UNIRE streaming dall’ippodromo romano delle Capannelle lo svolgimento della corsa listed Natale di Roma. Chiacchiere tanto per riempire i tempi di attesa del via. Inutilità tecniche, fastidiose. Poi finalmente è partita la corsa e, a parte la modestia assoluta del commento del cronista, superfluo, ne siamo stati piacevolmente coinvolti.
Restituiteci il silenzio del pensare.
Frankel al Banstead Manor Stud di Newmarket
Frankel (Galileo e Kind da Danehill) purosangue che, secondo la classificazione introdotta dal Varola, dobbiamo inserire nella categoria dei soggetti brillanti, ha terminato la carriera imbattuto dopo 14 corse prestigiose, risultando uno dei fenomeni del turf internazionale di questi ultimi anni; probabilmente il più grande. La sua velocità di base era talmente prepotente da permettergli di fare corsa a sé in gran parte degli impegni sostenuti, collezionando sui rivali distacchi di vantaggio record. Se avesse affrontato la distanza classica del miglio e mezzo sarebbe stato collocato sul più alto gradino, quello dei grandissimi campioni dell’ippica europea, Ribot e Sea Bird. Il rating 141 attribuitogli è infatti tale da concederglielo.
Con questi formidabili attestati il portacolori uscito dagli stud Juddmonte di Kalid Abdullah è stato destinato all’allevamento nel Banstead Manor Stud di Newmarket, contendendo inevitabilmente ai già affermati Galileo, Dubawi e Sea the Star le più affermate e prestigiose fattrici. Non poteva essere altrimenti.
Ho sollecitato un ippico impegnato come l’amico Paolo Crespi a recuperare l’elenco di queste madri privilegiate, con lo scopo di valutare insieme, con le cautele insite nell’analisi della produzione del primo anno di attività di Frankel stallone, l’incidenza che questo riproduttore potrebbe avere in futuro sull’allevamento mondiale. Dobbiamo considerarlo l’ultimo, ad oggi, segmento in ordine di tempo di quella linea che a livello classico partendo da Pharos e attraverso Nearco, Neartic, Nothern Dancer, Saddlers Wells e Galileo domina incontrastata il turf europeo e non solo? o dobbiamo aspettare un altro? Puro esercizio accademico al momento, ma interrogativo non da poco, stimolante che necessita di risposte sui terreni di gara.
Con l’aprile la programmazione inglese prevede la disputa dei vari trials in preparazione alla stagione classica, primi quelli per le 2000 e le 1000 Ghinee. L’occasione per iniziare la nostra indagine ci è stata offerta dalle selettive Craven Stakes di Newmarket dove l’outsider Eminent (Frankel e You’ll Be Mine da Kingmambo) ha sopravanzato di due lunghezze il più atteso Rivet (Fastnet Rock e Starship da Galileo). Sul terzo gradino Bembatl (Dubawi e Nahrain da Serkirk). La paternità del primo avrebbe offerto la migliore garanzia rispetto sia a quella del terzo arrivato che all’influenza dell’avo materno Galileo per il secondo. Di segno contrario le conclusioni da trarre a seguito delle tradizionali Greenhan Stakes all’ippodromo di Newbury. Barney Roy (Excelebration e Alina da Galileo) e Dream Castle (Frankel e Sand Vixen da Dubawi), entrambi per i colori Godolphin, si sono avvantaggiati in lotta vibrante contendendosi il successo. Il secondo è sembrato prendere il sopravvento con azione prepotente, ma ha accorciato l’azione nei cinquanta metri conclusivi subendo il ritorno del coetaneo che lo ha sopravanzato chiaramente. Dovremmo arguirne, ignorando la cautela, che l’influenza dell’avo Galileo sul primo soggetto è risultata superiore a quella trasmessa dalla paternità di Frankel sul secondo. Con una riserva non di poco conto: entrambi i puledri erano alla seconda uscita in carriera, dunque con tutte le relative incognite derivanti dalla limitata esperienza.
Il Derby Trial di Epsom sul doppio chilometro, dunque sul tracciato dove si correrà il Blue Ribbon, ha offerto l’occasione per il rientro di Cracksman (Frankel e Rhadegunda da Pivotal) colori di Oppenheimer e training di Gosden. Vittoria sudatissima (corto muso) su Permian (Teofilo e Tessa Reef da Mark Of Esteem) più per merito di Dettori che del puledro, acerbo e visibilmente imbastito dalla discesa al Totteham Corner. Al terzo posto, non lontano, il Godolphin Bay of Poets (Lope de Vega e Bristol Bay da Montjeu). L’assenza di eredi di Galileo e Dubawi non offre ragioni di confronto diretto, ma impressione tutto sommato positiva per il figlio di Frankel quanto ad approccio alla distanza.
Nel Classic Trial di Sandown, gruppo 3, la progenie di Frankel era preponderante nel numero dei soli cinque concorrenti. Monarchs Glen (Frankel e Mirabilis da Lear Fan), colori di Abdullah, training di Gosden e monta di Dettori, era proposto quale nettissimo favorito alla pari, ma ha clamorosamente fallito finendo alla retroguardia. Soggetto ardente, scatenato al limite dell’ingestibile, Monarchs Glen ha esaurito la prolungata foga iniziale, facendosi da parte non appena attaccato in retta e mostrando i limiti del carattere. Ha difeso vittoriosamente l’onore del padre, sia pure di strettissima misura, il secondo allievo presentato da Gosden, Cunco (Frankel e Chrysanthemum da Danehill Dancer) su Intern un Rip Van Winkle e Uliana da Darshaan dunque dal lato materno attrezzato alla distanza. A stretto contatto il terzo posto è spettato al grigio Frankuus (Frankel e Dookus da Linamix). Quest’ultimo, allievo di Mark Johnston, avrebbe probabilmente colto il successo con una condotta più attendista. Nulla la presenza di Fierce Impact (Deep Impact e Kelai Gerbera da Smarty Jones). La corsa si presta a considerazioni contrastanti: come si vede l’ascendenza materna di Mirabilis è apportatrice di brillantezza ma risulta insufficiente quanto a resistenza. Tutto il contrario di quella trasmessa da Linamix e da Darshaan sulle rispettiva figlie. Ma è dal lato del carattere che i figli di Frankel hanno evidenziato limiti in questi primi impegni.
Sul suggestivo palcoscenico di Newmarket il Guineas Festival ci ha offerto i due eventi che rappresentano i primi impegni classici europei per i puledri brillanti europei: al sabato le 2000 stakes per i maschi, di domenica le 1000 stakes per le puledre. Due eredi di Frankel, i già citati Eminent, vincitore delle Craven, e Dream Castle, runner up del compagno di colori Barney Roy nelle Greehan, hanno sfidato Churchill (Galileo e Meow da Storm Cat), leader giovanile in virtù dei successi nelle National e nelle Dewhurst. Entrambi hanno subito la supremazia del portacolori irlandese, che ha tenuto fede al ruolo di netto favorito nonostante fosse al rientro stagionale. Storm Cat gli può solo aver aggiunto ulteriore resistenza classica dal lato materno.
Due le figlie di Frankel schierate nelle 1000 Ghinee: la precocissima Fair Eva (Frankel e African Rose da Observatory) poi ridimensionata nelle ambizioni dopo uno strepitoso debutto, e Queen Kindly (Frankel e Lady of the Desert da Rahy) opposte alle Galileo presentate da O’ Brien: Hidrangea (Galileo e Beauty is Truth da Pivotal), Rhododendron (Galileo e Halfway To Heaven da Pivotal) la scontata favorita sulla carta e la grigia Winter (Galileo e Laddies Poker Two da Chosir) molto richiesta al gioco nelle ore di vigilia.
Lo week-end si è risolto nel festival di Coolmore, le cui puledre non sono state da meno dei maschi: Winter, valendosi della velocità di base ereditata da Chosir ha confermato le voci che la volevano in forte progresso di condizione e si è sottratta all’arrembante Rhododendron. Ancora Galileo sugli scudi, in combinazione con la brillantezza aggiunta da Pivotal.
Anche da queste prove di gruppo uno è emerso chiaramente che la paternità diretta di Galileo offre il meglio rispetto a quella mediata tramite il di lui figlio Frankel; la sua posizione di sire campione ne viene ulteriormente rafforzata.
Con il Vase di Chester si entra nel periodo dei trials in preparazione al Derby di Epsom. Count Octave (Frankel e Honorine da Mark Of Esteem) e il già nominato Cunco, la scelta di Lanfranco Dettori per Gosden, affrontano Finn Mccool (Galileo e Mystical Lady da Halling), The Anvil (Galileo e Brightest da Rainbow Quest), Venice Beach (Galileo e Danedrop da Danehill) e Wings of Eagles (Pour Moi e Ysoldina da Kendor). E’ l’occasione per rinnovare il duello tra padre e figlio non più sulla dote brillante, bensì quanto a trasmissione di stamina. Nessuno dei concorrenti possiede referenze immacolate, tanto che il più attrezzato del campo si direbbe l’imbattuto, in due prove secondarie, Tamleek (Hard Spun e Tafaneen da Dynaformer) una genealogia prettamente americana in cui compaiono sia Nearco che Ribot. Ma questi soggetti sono da annoverare tra i possibili candidati al Blue Ribbon o non piuttosto seconde figure, esploratori con il compito di saggiare i valori altrui? Comunque sia abbiamo dovuto prendere atto che l’invincibile armata uscita da Coolmore ha convinto conquistando l’en plein con Venice Beach, Wings of Eagles e The Anvil nell’ordine ai primi tre posti. Voglio ricordare che il vincitore è fratello uterino di Danedream formidabile vincitrice dell’Arc de Triomphe 2011.
Inserite nel secondo appuntamento del meeting di Chester le Dee Stakes, listed, costituivano un altro trial, sulla distanza del miglio e un quarto. Qui il confronto tra Cliff of Moher (Galileo e Wave da Dansili) e Mirage Dancer (Frankel e Heat Haze da Green Desert) si estendeva a Fujara Bridge (Sea the Stars e Garancere da Anaba) e al Godolphin Bay of Poets (Lope de Vega e Bristol Bay da Montjeu). Al traguardo il favorito Cliff of Moher sfuggiva agevolmente alla tardiva rincorsa di Bay of Poets. Ulteriore schiacciante conferma sul dominio in Europa di Galileo come stallone classico resistente e della inconsistenza trasmessa da Frankel ai figli maschi.
Le Dante Stakes, clou del meeting primaverile di York sono per tradizione la prova che conclude la serie dei trials con i quali vengono selezionati i puledri sicuri protagonisti del Derby di Epsom. La distanza è il doppio chilometro. La presenza di figli degli stalloni Dubawi, Frankel, Sea the Stars e Galileo, avrebbe dovuto offrirci dati per commentare le potenzialità riproduttive di questi quattro costosisimi stalloni. Senonché copiose piogge hanno appesantito lo stato del terreno tanto da consigliare gli uomini del favorito sulla carta, Cracksman a rinunciare prudentemente all’impegno. E’ emerso a parziale sorpresa il suo runner up nel trial di Epsom quel Permian (Teofilo e Tessa Reef da Mark Of Esteem) che ha respinto nell’estenuante retta di arrivo gli assalti ripetuti portatigli dal Godolphin Benbatl. L’atteso Crystal Ocean (Sea the Stars e Crystal Star da Mark Of Esteem) accompagnato da consistenti voci si è assicurato il terzo posto recuperando posizioni nel finale non del tutto lineare. Fuori dal marcatore Exemplar (Galileo), Swiss Storm (Frankel) e Wolf Country (Dubawi).
Per il nostro studio la corsa non ha portato elementi nuovi di giudizio risultando ininfluente. In chiave Blue Ribbon, dove verosimilmente approderanno Cliff of Moher e Venice Beach, i primi due delle Dante dovrebbero essere della partita.
La produzione di Frankel nel versante femminile sembra avere una riuscita più confortante. L’ardore e l’emotività manifestati nelle fasi iniziali della competizione che caratterizzano i figli maschi avendo come conseguenza il dispendio prematuro di energie non si evidenziano nelle femmine, più professionali e gestibili. I giapponesi non rinunciano ad accaparrarsi quanto di meglio esprima la selezione del tuf internazionale: così nelle Oaks giapponesi è stato netto il successo della favorita Soul Stirring (Frankel e Stacelita da Monsum) al suo quinto successo nelle sei gare disputate. E’ opportuno ricordare che sia Stacelita che Midday sono state plurivincitrici di gruppo I.
Anche nel continente americano la produzione femminile di Frankel esprime la qualità auspicata: all’ippodromo nuovaiorchese di Belmont è di Rubilinda (Frankel e Rubina da Invincible Spirit) il convincente debutto vittorioso sui sei furlongs delle Paradise Creek Stakes. Partita lentamente tanto da finire alla retroguardia, la femmina ha recuperato brillantemente sottomettendo con autorità gli avversari tanto da distaccarsi nel finale.
Epsom ad inizio del mese di Giugno come impone la tradizione: assistere alle Oaks di venerdì e al Derby di sabato sono per The Queen e i suoi fedeli sudditi impegni inderogabili. Si tratta degli esami di laurea che incoronano rispettivamente la migliore femmina continentale di tre anni e il miglior puledro al termine dei classici 2400 metri nella pista dove l’insidioso Tottenam Corner e l’estenuante diritura d’arrivo si incaricano di selezionare cavalli e fantini.
Nella prova riservata alle femmine Frankel non era rappresentato. Alla vittoria è approdata la qualitativa Enable (Nathaniel e Concentric da Sadler’s Wells) che ha dominato la già citata Rhododentron. Nathaniel, il laureato delle King George VI and Queen Elizabeth Stakes del 2011, si avvia ad essere la novità più promettente tra i giovani stalloni.
Tra i maschi il pronostico della vigilia ha oscillato tra i già citati Cracksman (Frankel) e Cliff of Moher (Galileo). Dettori contro Moore, Gosden contro O’Brien. Preponderanti nel numero i cinque eredi di Galileo rispetto ai due di Frankel, ma sostanziale equilibrio sul palo d’arrivo: Cliff of Moher alla piazza d’onore, Crackman ed Eminent rispettivamente terzo e quarto.
Prima che inizi la stagione degli impegni intergenerazionali che rimescola le carte e mette a confronto colts e horses continentali per attitudine alle differenti distanze, la selezione dell’emisfero settentrionale propone, in successione temporale: il Derby Italiano a Capannelle, il Prix du Jockey Club a Chantilly per la indisponibilità di Longchamp, il Deutsches Derby di Amburgo e infine l’Irish Derby al Curragh abituale controprova di quello inglese. Al fine della comparazione di merito tra gli stalloni non trattiamo singolarmente i primi tre Derbies secondo i rispettivi risultati al traguardo, bensì facendo ricorso ad un criterio quantitativo anziché qualitativo. Il numero degli eredi di ciascun padre è rapportato alla somma complessiva dei partenti nei tre eventi che ammonta a 42 presenze ( Roma 11, Chantilly 12, Amburgo 19): per Galileo 3 presenti, per Dubawi 2, per Frankel 0.
Nelle verdi ondulazioni della piana del Curragh che si perde a vista d’occhio conservando alla competizione un gusto arcaico il Derby d’Irlanda offre occasione di rivalsa per i battuti di Epsom. Wings of Eagles, l’imprevisto vincitore di allora, accetta di rimettersi in gioco contro tre reduci: Cracksman per Gosden e i compagni di colori Capri (Galileo e Dialafara da Anabaa) e Douglas Macarthur (Galileo e Alluring Park da Green Desert). A questi si aggiunge, con non celate ambizioni, l’ospite franco-tedesco Waldgeist (Galileo e Waldlerche da Monsun) che rappresenta l’opzione di André Fabre, le cui uscite dai confini raramente si materializzano in un nulla di fatto. La stagione dei Derbies si è esaurita con l’ennesima sorpresa a traguardo, confermando il sostanziale equilibrio dei valori a livello dei più forti esponenti della generazione: al termine di una lotta incerta che ci ha tenuto con il fiato sospeso il grigio Capri ha respinto fin sul palo d’arrivo gli attacchi furibondi dello sfortunato Cracksman e di Wings of Eagles separati solo dal mezzo meccanico. Volessimo essere pignoli, ma non ci pare questo il caso, concluderemmo che un discendente di Galileo è davanti ad un Frankel, seppure di un niente.
Chiudo questa mia rassegna con il Queen’s Vase, la tradizionale prova per i tre anni resistenti inserita nel programma prestigioso del Royal Meeting di Ascot. Il confronto ha visto la partecipazione di figli degli stalloni oggi più richiesti: Galileo, Dubawi, Sea The Star, Frankel, Nathaniel, Shamardal, Manduro e Deep Impact. Una rassegna della migliore nobiltà equina. Ne è risultato vincitore Stradivarius (Sea The Stars e Private Life da Bering) autore di un guizzo finale incisivo con il quale ha sopravvanzato Count Octave (Frankel e Honorine da Mark Of Esteem). Al terzo posto Secret Advisor (Dubawi e Sub Rose da Galileo). Come a dire per tutti i concorrenti la classicità maschile impiantata su un’eredità resistente trasmessa dal versante femminile. Fu la ricetta seguita senza deflettere da Federico Tesio.
Frankel e il dubbio
Le corse dei cavalli sono uno sport democratico per davvero.
Difatti c’è quella bellissima battuta: all men are equal on the Turf, and under it.
Che non so tradurre ma di cui so spiegare il significato: dice che nell’ippica i rapporti sociali sono prefissati eppure le corse mettono infine tutti alla pari, diventando a modo loro un veicolo di mobilità sociale.
L’outsider può battere il favorito, il cavallo del proprietario qualsiasi può superare quello del re. Il profano può guadagnare più dello scommettitore professionale e il cavallo con poco pedigree può effettivamente battere quello molto più blasonato.
Un genere di uguaglianza che nello sport si verifica raramente: per dire, l’anno scorso la quota del Leicester vincente in Premier League era più alta di quella prevista per l’eventualità di un’invasione aliena della Terra. Dimenticate per un attimo che poi quel diavolo di Ranieri ce l’ha fatta, il punto è che nel calcio (tanto per fare un esempio) tutti, ma proprio tutti, pensano: o sei un privilegiato o non vincerai mai.
Per noi dei cavalli, invece, non è così. Siamo orgogliosi delle nostre storie su puledri e proprietari improbabili e godiamo nel ricordare i loro trionfi. Seabiscuit, Signorinetta, Takeover Target sono tutti noi.
Se state leggendo e siete ragionevolmente di sinistra, questo vi piace di sicuro.
Vinca quello che galoppa più forte: c’è posto per tutti.
Se fosse tutto così semplice.
Magari funzionasse così.
Invece va che ci sono i grandi allevatori, che non sono affatto degli outsiders: sono dei dannatissimi miliardari e si sono comprati tutte le migliori fattrici. Tutte! Le hanno portate negli allevamenti più belli, facendo curare i loro puledri come meglio non era possibile. Poi li hanno venduti (a proprietari ancor più ricchi di loro) o li hanno affidati ai trainers più esperti. Che li hanno allenati come manco Usain Bolt e, tanto per garantirsi, li hanno messi in mano a super fantini reclutati in ogni angolo del pianeta.
Ergo, esercitiamo il buonsenso. Sta per suonare la campanella - si aprono le gabbie.
Chi cavolo credete che vincerà? Ve lo dico io: vinceranno proprio quei cavalli lì.
Bando al populismo. Affidiamoci al pragmatismo, alla statistica.
Qualche anno fa capitò che in tutto il mondo corresse un unico cavallo figlio di una fattrice che aveva vinto l’Arco di Trionfo. Era di un miliardario asiatico: cresciuto sul tappeto verde di una delle più famose nurseries irlandesi, in training da un mago, montato da un fantino che era un vero drago.
Chi vinse l’Arco di Trionfo quell’anno? Avrebbe potuto vincerlo uno qualsiasi dei centomila e più cavalli che allora venivano allenati in tutto il mondo.
Certo, come no: uno qualsiasi. Però si impose proprio quel cavallo lì, un campione che si chiamava -si chiama ancora- Sea The Stars.
Sea The Stars nasce da uno stallone che all’epoca non era al culmine della notorietà ma c’era stato 4 anni prima al momento di coprire sua mamma (la celebrata Urban Sea, madre di Galileo): allora, una sua puledra aveva vinto le Oaks di Epsom.
I cavalli privilegiati sono, soprattutto e prima di tutto, anche figli degli stalloni più famosi.
Mio malgrado: perché mi occupo di stalloni e sono abituato a sentire ripetere che i figli dei miei cavalli hanno meno qualità degli altri, e brucia quando vedo che anche ai miei clienti lo stesso concetto viene rispiegato quotidianamente.
Quando è vero, cioè quando i loro cavalli sono brocchi. E anche quando è falso e i loro cavalli non sono poi tanto scarsi.
Tipo l’altro giorno, che il figlio di un mio stallone ha vinto il Derby –veramente lo ha stravinto-. Il pezzo di commento sul giornale tecnico spiegava che quel cavallo ha un pedigree normale (intendendo con ciò modesto). Scordando che il papà fu campione del mondo e che la mamma era una cavalla buona, figlia di un crack. L’autore dell’articolo semplificava: non nascendo da uno stallone famoso, il derbywinner 2017 non dovrebbe essere uno di quelli buoni.
Un tempo polemizzavo, quando leggevo una cosa così. Ora ho smesso, rendendomi conto che è ben possibile che abbia ragione il giornalista, mica io!
Per aver ragione io, dovrebbe essere tutto così semplice.
Dovrebbero bastarci le volte in cui un cavallo plebeo smentisce la prassi per cui il miliardario si è preso la cavalla eccelsa e, sapendo quanto avrebbe investito sui suoi figli, si è premurato di farla ingravidare dallo stallone migliore di tutti.
Per poi vincere lui le corse, quel vigliacco capitalista. Una ingiustizia; oppure no?
Se state leggendo e siete ragionevolmente di destra lo sapete benissimo. Si può pure apprezzare la bella idea che si è tutti uguali, ma alla fine i conti si fanno con la realtà.
E allora siamo seri, cos’altro doveva fare quel grande allevatore? Chi di noi non avrebbe scelto il massimo degli stalloni, trovandosi nei suoi panni? Chi non avrebbe selezionato un cavallo imbattuto figlio del miglior sire del decennio? Uno la cui mamma nasce tra l’altro da un celebrato califfo? Magari uno i cui nonni siano la crema dei riproduttori degli anni ‘90? Uno stallone atteso dal mondo intero, non saprei ... uno tipo Frankel?
Accidenti come odio Frankel.
Mi ricordo come cominciò: prima delle Duemila Ghinee 2011 mi trovai a cena con un amico che si picca di essere un esperto. Frankel era favorito a quota tanto bassa da sembrarmi poco giustificata. Lui mi apostrofò, disse che non capivo nulla. Quello è un Campione, lo allena Cecil, è rientrato bene. Vincerà, disse, e subito lanciò la sua sfida: lui avrebbe tenuto Frankel, io il resto del campo. Bastava scommetterci sopra.
Il giorno dopo ero davanti alla TV fiducioso di incassare: che sarà mai questo Frankel, pensavo. Gli australiani dicono: just another horse.
Invece Frankel andava tanto forte che staccò ogni rivale già a metà corsa: nessuno riusciva a tenere il suo passo. Vinse di sette lunghezze fermando, con gli avversari che arrancavano per la pista ubriachi di fatica.
Cominciai ad averlo in antipatia proprio mentre il resto del mondo lo adorava: ho la vecchia abitudine di andare sempre controcorrente e mi dicevo: mica sarà possibile che questo vinca sempre così. Era possibilissimo invece, e puntualmente accadde. Frankel diventò il Campione del Secolo, l’Invincibile.
A mia scusante restò un solo argomento, però irrisolvibile. Frankel era stato gestito con abilità eccelsa, evitando ogni corsa che presentasse dei rischi aggiuntivi a quelli inevitabili (gli avversari): era sceso in pista sempre e solo in Inghilterra, in schemi ridotti, senza affrontare lunghi viaggi, tattiche estranee, ambienti avversi. Chissà se sarebbe stato altrettanto imbattibile a Longchamp, a Leopardstown o a Louisville.
Ma poco conta; stando le cose come stanno, Frankel ha chiuso senza mai rischiare la sconfitta (per buona misura, le sue ultime 9 corse sono state tutte dei Gruppi Uno) ed è andato in razza. Il cavallo perfetto, perché lui è anche forte e elegante, imponente e tranquillo. L’ho visto: è tutto ciò che ci si immagina, niente di meno.
Il Purosangue Inglese, anzi inglesissimo, orgoglio del Paese dei cavalli.
(qua c’è una digressione- dovete sapere che mi sono fatto l’idea che i cavalli allenati in Inghilterra siano sopravvalutati. Per gli esperti sono i Campioni del Mondo, ma quando vanno all’estero ne vincono proprio poche. Mi paiono come la loro nazionale di calcio degli anni trenta che si isolava in forza di una presunta superiorità: poi cominciarono a scontrarsi con avversari e realtà e di Mondiali ne hanno vinto uno su venti, rubando. Ecco uno dei motivi per cui non riesco a stare dalla parte di Frankel)
Frankel vive a Banstead Manor, poco fuori Newmarket. Un posticino immacolato, con scuderie caratteristiche coi mattoni a vista: ha un box che affaccia su un cortile perfetto. Il luogo - manor sta per maniero - è famoso per gli eccezionali risultati che ha il suo proprietario Principe Abdullah, sportsman straordinario ed elegantissimo.
Nel complesso, dal punto di vista dello charme non manca proprio nulla, chiunque ne resta affascinato.
L’insopportabile Frankel. Mai che con questa bestia io abbia centrato un pronostico: e dài che lo sapete, ogni ippico vorrebbe aver sempre ragione e si aspetta che i risultati delle corse confermino le sue più strampalate teorie; in fondo in fondo siamo tutti tecnici da Bar Sport, dei fanfaroni.
Per di più Frankel polverizza anche la mia supponenza. E’ un supercavallo ed è anche figlio di un super stallone, Galileo - il miglior al mondo, ora come ora. E da chi nasce Galileo? Proprio da Sadler’s Wells, fenomeno di riproduttore, di un pezzo il più grande della sua epoca. Per trovare uno stallone che gli stia alla pari, si deve risalire a suo padre Northern Dancer, il grande Sire dell’epoca precedente.
Guarda caso. Alla faccia dei ragionamenti complessi. Ecco qua, nero su bianco.
Chi saranno i migliori stalloni? I grandi campioni figli dei migliori stalloni, a loro volta nati da superstalloni. Come succede sempre. Con aritmetica precisione. Prendiamo questo caso qua: è accaduto per tre volte consecutive, in tre epoche diverse.
Il prossimo Champion Sire sarà Frankel, sicuro come l’oro. Una bomba di cavallo da corsa, pure figlio di Galileo.
Se fosse tutto così semplice.
Manco fosse questa la prima volta che attendiamo di verificare quanto andranno forte i figli di un cavallo che nella sua epoca è stato dominante. Un predestinato, uno al quale (per fisico, attitudine, carriera di corse) non riesci a trovare un difetto: la mela non casca mai lontano dall’albero, perché diavolo i suoi puledri non dovrebbero essere altrettanto buoni, proprio quanto - o quasi quanto - lo era lui?
Mi viene in mente Brigadier Gerard. Che infine una volta perse, ma che per strada aveva anche vinto pure a 2400m. (Frankel, mai) e non una corsa qualsiasi: le King George & Queen Elizabeth Stakes. Diede anche un vincitore Classico e uno che vinse le Champion Stakes; è nel pedigree di American Pharoah, ma nel complesso è stato un fallimento.
E Secretariat? Una macchina da corsa messa in razza nel momento perfetto. Quando attendevamo i suoi figli, si dava tutto per scontato. Vennero i primi puledri e uno di loro, Canadian Bound fratello di Dahlia, all’asta attrasse una prima offerta che era già superiore al record mondiale di prezzo di allora. Alla fine spuntò più del doppio, e la cosa parve a tutti normale, tranne che non vinse mai una corsa.
Secretariat ha dato anche campioni, un Cavallo dell’Anno (Lady’s Secret), il vincitore di 2 classiche USA (Risen Star), uno di Melbourne Cup; ora lo si ritrova nel pedigree di vari fenomeni, di solito attraverso le sue figlie: infatti è ricordato come buon padre di fattrici. Non mi sembra un complimento, visto che aveva coperto solo cavalle appartenenti alle migliori linee femminili dello stud-book.
Ricordate Spectacular Bid e Affirmed? In corsa avevano fatto tutto e anche di più, ora sono considerati più o meno degli avvelenatori di sangue pregiato.
Persino Ribot è criticato come stallone. Ribot che alla prima annata diede chi vinse l’Arc, alla seconda uno che vinse Queen Elizabeth e Sussex, alla terza un vincitore Classico Inglese e alla quarta un altro che vinse l’Arc; alla quinta annata una che vinse le Oaks, alla sesta Graustark. Alla settima e all’ottava un vincitore Classico tanto in Irlanda che in Inghilterra, e alla nona annata il vincitore delle Belmont Stakes.
Ma così come esistono i fenomeni esiste pure l’incontentabilità, e l’ippica rigurgita di esperti che etichettano Ribot come uno stallone poco influente.
Lo so quello che state pensando. Che Ribot era figlio “solamente” di Tenerani. Che il Brigadiere era un Queen’s Hussar. Non proprio due califfi come invece è Galileo, il padre di Frankel.
Ok, ma con Secretariat, che era figlio di Bold Ruler in persona, come la mettiamo?
La verità è che non basta essere circondati dalle attese di allevatori e fans. La verità è che solo una minoranza statistica e numericamente risibile di stalloni, alla prova dei fatti, è miglioratrice. Senza rispetto del fatto che ad alcuni di loro è data l’opportunità di coprire le più selezionate (e provate) fattrici disponibili.
In America c’è un sistema brillante per evidenziare ciò che ho appena spiegato, cioè che pochi stalloni trasmettono capacità atletiche superiori alla media: è il Comparable Index, facile da applicare e un po’ complesso da spiegare. Ci provo ugualmente.
In ogni data annata ogni cavallo da corsa di ogni Paese ha a disposizione una vincita media - Average Earning - vale a dire quanto ciascuno riceverebbe se tutti i cavalli che corrono in quel luogo vincessero in modo identico, spartendosi l’intero montepremi.
Di conseguenza per ogni stallone si può calcolare un Indice indicante il multiplo (o la frazione) di Average Earning che i suoi figli hanno in realtà vinto: un numerino che riassume se i suoi prodotti hanno vinto un po’ di più oppure un po’ di meno di quanto era lecito attendersi.
Esempio: se lo stallone A ha Indice = 2 e lo stallone B ha Indice = 0,5 significa che i figli di A hanno vinto il doppio della media attesa e i figli di B hanno vinto la metà della media attesa, ovvero un quarto di quanto hanno vinto i figli di A. Un dato insufficiente a illustrare l’abilità come riproduttore di ciascuno dei due stalloni, che non li rende paragonabili tra loro: perché è ben possibile che A abbia coperto fattrici molto migliori di quelle coperte da B.
Qua salta fuori il Comparable Index. Che calcola il corrispettivo dell’indice di cui sopra (Average Earning Index) ottenuto dai figli delle fattrici coperte dal dato stallone quando però sono nati da altri stalloni, non da quello in questione.
Lo so, ora vi gira la testa e vi capisco; ma prendete fiato, non è poi troppo complicato.
Torniamo allo stallone A. Quello che in un certo anno, o nella sua carriera, ha avuto figli con Average Earning Index = 2. Figli nati da certune fattrici che in differenti annate hanno prodotto altri cavalli da corsa da incroci con stalloni che non erano A.
Il Comparable Index esprime semplicemente l’Average Earning Index di questi ultimi cavalli. Dice se sono stati migliori (oppure peggiori) dei figli di A e delle loro stesse mamme. Dice se il loro guadagno medio è stato più o meno di 2.
Ora comprenderete: se questi ultimi cavalli, che naturalmente sono tanti, hanno vinto, in media, meno di quanto hanno vinto i figli delle stesse fattrici e dello stallone A, si capisce che A è miglioratore. Viceversa, quando il Comparable Index di uno stallone risulta più alto del suo Average Earning Index se ne deriva che egli ha influenzato negativamente la performance media delle fattrici che ha coperto: le ha peggiorate.
Gli stalloni con AEI superiore al loro CI sono meno del 30% di quelli in circolazione. Non è facile ottenere tale risultato, e diventa difficilissimo se un sire copre cavalle molto buone, che quindi generano CI alti, producendo figli (da altri stalloni) che spesso vincono molto soldi, proprio perché loro sono fattrici buone.
Per diventare Champion Sire - garantisco - si deve essere veri miglioratori. Non basta coprire cavalle buone. Bisogna avere un AEI molto, molto più alto del CI delle fattrici che si sono coperte. E per diventare Champion Sire, anche i grandi campioni hanno davanti una montagna da scalare. Bella alta, mi pare.
Voglio proprio vedere se alla fine Frankel sarà capace di tanto. Anche se ha coperto cavalle fantastiche. In un certo assurdo modo, persino a dispetto del fatto che queste cavalle sono così buone, potrebbe rischiare di fare la fine di Ribot, che ha prodotto tutti quei Campioni lasciandosi dietro il sospetto che vabbè, ma era facile fare almeno bene: con le cavalle che gli hanno dato!
Non pretendevo che all’apparire dei suoi primi due anni succedesse subito che un Frankel trionfasse nel Morny, nelle Gimcrack, nel Grand Criterium. Non esageriamo. Vero che Frankel fu Campione dei 2 anni Europei e vinse le Dewhurst. Però ho dato un’occhiata al pedigree che non straborda di cavalli precoci, tutt’altro. In tutte le prime 4 generazioni ce ne sono solo tre, Miswaki, Fairy Bridge e Blushing Groom. E nella linea femminile, che è buonissima, non c’è neppure un vincitore di corse black-type a 2 anni. Il pedigree invece è colmo di cavalli da 3 o 4 anni, nomi Classici, come si conviene al più Classico dei cavalli: Sadlers Wells, Galileo, Rainbow Quest, Stage Door Johnny, Danehill, Lombard, Northern Dancer, His Majesty.
Eh già, il vaglio Classico, quando i 3 anni affrontano le prove sul miglio, proprio quel genere di corse dove ti attenderesti che i figli di Frankel si trovino nel loro elemento.
Di Classiche per ora in Europa ne hanno fatte 9 e i Frankel non si sono piazzati. Mai. Loro miglior risultato è il quinto posto nelle 2000 Ghinee di Dream Castle, che per ora è il figlio di Frankel col rating più elevato, per quello che può contare, cioè per me pochissimo. Conta invece che Dream Castle, in quella corsa, non è mai parso della partita, manco per un piazzamento.
E allora cosa stiamo qua a discutere. Frankel darà bene, ci mancherebbe. Con le cavalle che ha coperto: ma tagliamo corto, stavolta non riuscirà a fregarmi. Non ce la può proprio fare a diventare Champion Sire. In questi anni dominerà Galileo, i cui figli nel 2017 hanno vinto tutte le Classiche Anglosassoni corse finora. E poi verrà Sea The Stars, che ha già dato 7 vincitori di Gruppo Uno, o chissà quale altro stallone inatteso, che manco ci immaginiamo, magari i cui figli non sono ancora apparsi in pista. Naturale che Frankel non ce la farà: con tutta la concorrenza che c’è.
Se fosse tutto così semplice.
Se fossi stato furbo, o almeno ben informato. Se non fosse che avevo cominciato a scrivere questo articolo senza però trovare il tempo di finirlo.
Nel frattempo un mio amico faceva anche lui le pulci alla produzione di Frankel, pure lui per iscritto. Con stile diverso e più avveduto del mio: lui l’articolo lo scrive man mano, badando bene a lasciarlo sempre “aperto”. La stagione di corse procede e lui aggiorna i commenti. Se un cavallo vince, ne loda la classe. Se non si piazza, trova nel suo pedigree la motivazione alla base della sconfitta. La sua trattazione va avanti a singhiozzo, però aggiusta il tiro, pian piano. Quando avrà finito, farà una dimostrazione impeccabile.
Io invece ho fatto le scarpe a Frankel in quattro e quattr’otto. Solo al momento dall’ultima correzione ho scoperto che il primo Frankel USA aveva debuttato. Vincendo facile, a Belmont Park. E il primo Frankel sudamericano, ha fatto lo stesso. Di poco, ma ha vinto. Poi il primo Frankel tedesco, tra l’altro figlio di Queen’s Logic, Campionessa Europea, sorella di Dylan Thomas e di una che vinse le 1000 Ghinee di 8 lunghezze. Non chiedetemelo, per pietà: ha vinto anche lui.
Ma come, di che ti preoccupi? Non avevi come tuo argomento da trattare l’ incidenza degli stalloni sulle Corse Classiche di inizio stagione?
No, non l’ho più: Soul Stirring, la prima Frankel vincitrice di Gruppo Uno (nel 2016) si è piazzata nelle 1000 Ghinee Giapponesi e subito dopo ha vinto le Oaks del Sol Levante, che si chiamano Yushun Himba.
Mi sono reso conto che la notorietà di Frankel è così globale che i suoi figli sono davvero distribuiti in tutto il Mondo, e non è detto che i migliori correranno in Inghilterra.
Ho ricominciato a diventare nervoso. E ho fatto un po’ di conti.
Frankel finora ha dato quasi uno stakes winner ogni 7 cavalli che hanno corso: una proporzione sensazionale, e alcuni hanno solo debuttato e sono imbattuti. Già coi primi due anni in realtà ha sovrastato ogni concorrente tra i sires debuttanti, magari non per numero di vincitori ma certo per cavalli da neretto, a dispetto dell’ovvia prudenza con cui gli allenatori maneggiano i suoi figli. Ha avuto 6 vincitori di corse di Gruppo a due anni nella prima annata, più di qualsiasi altro stallone nel nostro emisfero. Meno male che il suo non era un pedigree precoce.
Ora come ora ha in giro 15 cavalli con rating superiore a 100, un numero che non comprende, per esempio, una filly che l’altro giorno ha stravinto una corsa di preparazione per le Oaks inglesi, dove sarà una delle favorite.
Se è questione di pedigree, è figlia di Midday, che di Gruppi Uno ne ha vinti 6 (sei).
E di classiche ce ne sono ancora TANTE. Solo in quelle francesi, Frankel ha 30 figli iscritti. Avete letto bene: trenta.
Poi c’è la faccenda delle cavalle buone coperte al suo primo anno in razza. Ritiro tutto quello che ho scritto prima, perché ora ho spuntato l’elenco con l’attenzione di un frate certosino. Ci sono ancora da testare figli di 36 vincitrici di Gruppo Uno (e di 14 piazzate, che comunque ci sono andate maledettamente vicino). Fratelli/sorelle di 27 Gr 1 winners. Più tutte le altre. Qua c’è solo da aspettarsi che questo migliori.
L’elenco mi ha fatto venire la nausea: African Rose, Albanova, Alexander Goldrun, Dancing Rain, Dar Re Mi, Elusive Wave, Finsceal Beo, Heat Haze, Lahudood, Musical Treat, Proportional, Ramruma, Sariska, Stacelita, Red Bloom, Vodka, Zee Zee Top. Il resto ve lo risparmio: non credo che le cavalle coperte da Frankel nel secondo, terzo e quarto anno siano tanto peggiori delle già nominate.
Mi è tornato in mente quando tifavo contro e lui vinceva scherzando. Mi è tornato in mente quando l’ho accarezzato. E’ meraviglioso. Mi guardava, ha sbadigliato.
Prima di oggi, credevo che scrivere di cavalli non fosse poi un gran problema. Coi cavalli, puoi sostenere ogni opinione senza correre il rischio di sembrare insolente. Con quel minimo di faccia tosta potrei scortare il lettore da un lato all’altro del sottile confine che separa le due teorie su Frankel. Che sarà un grande stallone, oppure no. Potrei andare avanti per ore senza sbilanciarmi.
Però più procedo più mi viene il dubbio: può darsi che scrivere di cavalli sia meno facile di quanto pensassi e che la questione-Frankel sia invece elementare. Difatti, basta aspettare e vedere cosa accadrà.
Non sarebbe proprio una cosa da ippici: tutti sognatori e quindi impazienti, come chiunque abbia un sogno da realizzare e perciò desidera tanto, e subito. Nessuno mostra più impazienza dell’ippico: la cavalla è già gravida? non ha ancora partorito? quando sono i primi debutti? vorrei che il cavallo corresse domenica prossima!.
Vi scandalizzerò, ma propongo di lasciare in pace questo povero Frankel. Ha appena iniziato a fare lo stallone e già vogliamo giudicarlo, a pochi giorni dal Derby Inglese?
Non basterà una vita (la sua) a farci capire se è uno stallone caporazza, a che serve scoprirlo proprio oggi, Se chiedete a me, è meglio tenere il giudizio sospeso, per adesso.
L’avrete capito: per via dell’antica antipatia e di una scommessa persa 6 anni fa, tendo a schierarmi contro l’Invincibile. Io, che non ci azzecco mai.
Se al contrario voi siete veri tifosi di Frankel, vi do una dritta: a Epsom giocate Cracksman. E’ imbattuto e figlio suo. Levatevi la voglia.
E’ questo il bello delle corse, scoprire ciò che verrà dopo: cosa conta se sarà un’altra delusione o piuttosto la meraviglia di averci visto giusto.
Non lo so più chi ha detto: non è importante ciò che c’è alla fine di un viaggio, è il viaggio stesso a essere importante.
Sarà stato un orientale: mi sembra una cosa così saggia.
L’ultimo Lanfranco Dettori
Lo avrete notato o forse no, ma da quando è tornato in piena attività dopo la squalifica per doping che gli costò la chiusura del rapporto con Godolphin Lanfranco Dettori si assume sempre più di frequente il ruolo di metronomo della corsa, di colui che ne detta i tempi e più di altri ne influenza l’andamento. Che assuma direttamente il comando delle operazioni regolando a suo piacimento il ritmo, o che stia nelle posizioni di retroguardia egli sembra condizionare le altrui iniziative e giocare la partita al meglio. Nel gergo di ogni sport questa forma di dittatura si dice ‘imporre il proprio gioco’ ed è patrimonio degli atleti destinati ad emergere sugli altri.
Può darsi che ciò sia una conseguenza del sodalizio con John Gosden, attualmente il più ricercato e vincente trainer del Regno Unito, o il risultato delle esperienze maturate in una carriera straordinaria, straripante di successi, fatto sta che completa la personalità di un formidabile fantino.
L’allevamento
Allevare cavalli da corsa è un lusso, destinato, come ben sperimenta chi ha intrapreso l’avventura, a procurare più delusioni che soddisfazioni. Fanno eccezione quanti possono contare sulla produzione annua di qualche centinaio di fattrici purosangue. Già, perché esistono anche questi privilegiati possessori di patrimoni immensi. A costoro un campione che annulli tutte le passività, sia economiche sia sportive, nasce quasi ogni stagione, non fosse altro per regola statistica sui grandi numeri.
Ciò acclarato, può accadere che un eccellente cavallo, tale da frequentare la compagnia classica nasca da una mandria di pochi animali. L’evento non è quasi mai casuale, mai può essere attribuito alla fortuna. I meriti non sono scritti col fumo. Alla base di quello che chiameremmo un successo ci sono invece lo studio attento e una intelligenza, coltivato l’uno e affilata l’altra, che contraddistinguono il carattere dotato di uno specifico carisma innato. Si può appartenere alla categoria ristretta di ippici dalle brillanti intuizioni, l’esponente più famoso in Italia fu Federico Tesio, il mago di Dormello, pur senza essere né nobile né economicamente abbiente, ma per virtù innate, per espressione genica.
Conosco e apprezzo per le sue qualità umane e professionali un non più giovane ippico, lo direi sull’età di mezzo, che presta la sua opera di capo razza presso un noto allevamento dell’Italia centrale. Costui, di nome fa Massimiliano, sa leggere gli incroci con grande equilibrio, coltivata competenza e sensibilità innata, meriti per i quali tutti gli anni presenta sul mercato puledri di eccellente qualità e sorprendente riuscita in corsa pur possedendo in proprio due sole fattrici sapientemente scelte. Tra i puledri indigeni candidati alla vittoria nel prossimo Derby Italiano, forse il più accreditato dai tecnici a tre settimane dall’evento classico, è compreso il figlio di una delle due. Faremo il tifo per questo soggetto, erede di uno stallone che il Derby lo perse malamente nel finale per carenza di stamina e monta non adeguata alla circostanza, per divenire poi in mano estere un mezzofondista di statura internazionale. Quello che il padre perse allora potrebbe essere raccolto dal figlio grazie all’apporto di resistenza classica trasmessagli dall’avo materno El Grand Senor e dal fondista Alleged eclettico vincitore di due Arc de Triomphe.
Arrogate. 2
Arrogate, un altro formidabile purosangue. Questo il giudizio corale della stampa tecnica internazionale dopo il successo del portacolori di Abdullah nella World Cup 2017 a Meydan in Dubai. Mi sono permesso di esprimere recentemente un cauto e motivato giudizio sul trionfalismo frettoloso che caratterizza gli entusiasmi di chi guarda e non vede più in là del proprio naso. I fenomeni non nascono come i funghi, altrimenti non sarebbero più tali.
Dopo quella vittoria primaverile il puledro è stato ripresentato a Del Mar nel San Diego Handicap di gruppo II dov’era atteso da cinque davvero modesti avversari, di gran lunga inferiori al campione allenato da Baffert e tali da non mettere in discussione il risultato scontato, positivo. Nelle intenzioni si sarebbe trattato di un esercizio in corsa tanto per smaltire la ruggine accumulata dall’inattività dalle competizioni in previsione dei futuri impegni al vertice, con obiettivo finale la Breeder’s Classic. Il parere di un commentatore si era spinto fino ad annunciare “one horse show” prevedendo una corsa scontata, senza storia. Affermazione tecnicamente legittimata dai curricula dei comprimari.
Se show è stato lo si deve ad Accelerate, titolare di una carriera recente decisamente modesta, ma autore nell’occasione di una prestazione maiuscola così da affermarsi da lontano. Gli altri seminati per la pista, con Arrogate partito prudentemente alla retroguardia e incapace di risalire come svuotato di energie tanto da terminare quarto a distacco siderale dal vincitore: una non corsa la sua. Il che mi fa sperare sia stato rallentato per una causa accidentale o incappato in un malanno improvviso. Che altrimenti sarebbe l’allenatore del cavallo a meritare la graticola.
Enable
Enable (Nathaniel e Concentric da Sadler’s Wells), vincitrice di Oaks inglesi, Oaks irlandesi e King George VI and Queen Elizabeth Stakes 2017 accumulando nelle tre competizioni un totale di 14,5 lunghezze di vantaggio sui secondi arrivati, è l’ennesima fantastica opera d’arte uscita, anzi creata, dalla cultura e dalla intuizione di quella inarrivabile fucina allevatoria di purosangue che sono le Juddmonte Farms di Kalid Abdullah.
I commentatori pignoli delle King George, corse in una giornata grigia e piovasca prettamente english, osserveranno che per Ulysses il miglio e mezzo supera le attitudini, che Idhao è tosto ma non vale il fratello uterino Highland Reel, quest’ultimo nell’occasione a disagio su di un terreno allentato, che Jack Hobs, risorto soltanto a Meydan, è soggetto giornaliero oramai bollito. Ma la filly si è allontanata forte e leggera librandosi come una farfalla di altro cielo rispetto ai pur valorosi avversari, regalandomi l’emozione che solo le grandi imprese suscitano. Uber alles.
Ad altri il compito di considerazioni di carattere tecnico, di cronaca, curiosità o altro. Mi limito nella occasione a riproporre una convinzione datata, avendo a suo tempo sostenuto come Nathaniel e non altri sia destinato a raccogliere il ruolo del padre Galileo quale stallone leader. Faccio un invito. Quanti volessero rivivere la vittoria di Nathaniel nelle King George del 2011 in un filmato ancora oggi reperibile su internet, rimarranno abbacinati della potenza sprigionata nel lunghissimo salto di galoppo evidenziato durante il rallenty delle fasi conclusive della corsa. Era scritto che la trasmissione genetica avrebbe dato i suoi superiori frutti.
I proprietari di Nathaniel hanno uno stallone che sta qua, a Besnate.
Nel mio piccolo, so un pò di cose su di loro: i Rothschild sono una grande famiglia di etnia ebrea aschenazita di origine tedesca comprendente un ramo inglese e uno francese. Che immagino in buoni rapporti - ma io tendo a immaginare che in ogni famiglia si vada d'accordo, mentre qualche volta non è proprio così.
Comunque sia, è un fatto che i Rothschild francesi li devi chiamare roschild, mentre con quelli inglesi si deve parlare dei rotsciaild; se pronunci sbagliato con gli uni o con gli altri te lo fanno notare, e questo è davvero peculiare (per i curiosi: si, qualche volta ho sbagliato apposta, lo ammetto).
L'erede più glamour della fortuna dei Rothschild inglesi è un tale Nat: contrazione di Nathaniel, nome di famiglia, quello del grande capostipite.
Nat ha meno di 50 anni ma ha fatto una fortuna coi fondi hedge e poi con gli investimenti nel sud-est asiatico, di solito in miniere. Non che di tutti 'sti soldi avesse bisogno, peraltro, ma si sa che piove sempre sul bagnato. Una sua cava che estraeva un minerale raro aveva una miniera concorrente in Indonesia e quella -voglio dire, l'altra- è stata cancellata dallo tsunami. Non so se mi spiego. Nat è anche un gran personaggio del jet-set, fa feste magnifiche, ha sposato più di una modella famosa.
A un certo punto Nat si presentò da un mio amico che fa l'agente di cavalli –e che, seppure alla lontana, è anche un suo parente acquisito- per chiedergli di aiutarlo a fare felice sua mamma, che si chiama Lady Serena. Ella aveva grande passione per i cavalli ma non aveva mai colto le soddisfazioni che il figlio pensava meritasse. Per Nat, sua mamma era una da Gruppi Uno, quelli veri.
L'agente chiese a Nat se si rendeva conto di quanto sarebbe costato evadere la pratica e quello rispose che lo sapeva bene, e non lo reputava un problema.
“ Occupatene tu, gli disse: ma fai in fretta, non sono tipo da attendere a lungo.”
L'agente si mise al tavolino del suo ufficio, una sera dopo che le segretarie erano andate già a casa. Con calma, cercò di ragionare su quale potesse essere il metodo migliore per arrivare allo scopo.
Qua devo fare una digressione per spiegare che una cosa è immaginarsi di vincere un qualche Gruppo Uno internazionale, ma il farlo obbligatoriamente e a stretto giro di posta è tutt'altra faccenda, perché il compito è difficilissimo. Essere ricchi aiuta, ma non crediate che basti- gli straricchi che cercano di vincere quel tipo di corse sono una valanga, quelli che poi effettivamente ci riescono sono pochi.
E' un pò tipo cercare di vincere la Champions League. Mi ricordo di quanto tutti prendevano in giro Moratti e la mia Inter, perchè a dispetto dei miliardi investiti non ci si era mai andati vicino.
Solo che poi Moratti la Champions l'ha vinta eccome.
L’hanno fatto anche Berlusconi, Abramovich -di pura fortuna- e qualcun altro. Nel frattempo, di miliardari che ci hanno provato ce ne sono stati centinaia.
L'agente scartò subito l'idea di comprare i migliori yearlings del mondo. Pensò che anche investendo tantissimi milioni le sue chances sarebbero aumentate solo di poco (un ragionamento facilissimo, che per fortuna gli arabi non sanno fare).
L'idea dei foals gli sembrava più razionale perché i foals costano meno, se non altro. Però quelli in offerta sono complessivamente pochi, e rivolgersi a quelli sarebbe stato -secondo lui- ancora poco efficiente. Passò così a considerare la possibilità di acquistare i migliori cavalli da corsa. Cosa che era - ed è- economicamente valida: i migliori cavalli in attività sono sì costosissimi, ma (a differenza dei cavalli di allevamento) hanno almeno valori non del tutto irrazionali, spesso decentemente correlati alle loro possibilità di guadagno in premi o di reddito potenziale come riproduttori.
Il difetto dell'idea, però, era che i migliori cavalli da corsa ...semplicemente molto spesso non sono in vendita. Non è neanche una questione di prezzo, con certi proprietari.
Per cui alla fine l'agente scelse di comprare fattrici. Cosa che, se uno ci pensa, appare incredibile. Perché la fattrice è quanto più lontano ci sia dalla realizzazione della vittoria nel Gruppo Uno. Chissà quanti decenni, quanti prodotti, quanti incroci, prima di azzeccare un crack.
Nel caso di specie, comprare le fattrici -per me- era una idea da pazzi, anche ad essere bravi.
Quell'agente lì, però, è bravissimo. No, è veramente fuori da ogni classifica. Perché ha comprato poche cavalle, credo una quindicina, forse meno. E in un decennio ha vinto: le Eclipse, la Breeders Cup, Le King George, le Oaks Irlandesi, le Yorkshire, ecc.
Per avere molto, molto meno successo, ci sono agenti, allevatori e proprietari altrettanto ricchi a cui non è bastato acquistare cento volte le cavalle che ha comprato lui.
Ecco come nacque Nathaniel; l'agente doveva comprare cavalle dalle quali fosse davvero possibile far nascere un campione. Secondo i suoi canoni, necessitavano fattrici con vero pedigree classico ma -oltre a quello e in un certo modo a dispetto di quello- anche dotate di precocità e una certa dose di velocità di base. Selezionò così Playful Act, che aveva pedigree straclassico (Sadlers Wells su Silver Hawk) e a due anni aveva vinto il Fillies Mile di Gr1 a Ascot.
Prima ancora che la chiedesse al proprietario, Playful Act fu iscritta a un'asta, nel Kentucky.
Deciso ad acquistarla, e avendo carta bianca per effettuare qualsiasi spesa, l'agente si recò in America: solo che durante l'asta, a sorpresa, la cavalla salì oltre i 10 milioni di dollari, una cifra che egli giudicò irrazionale. Va bene spendere -pensò- ma voglio vincere questa partita secondo le regole. Non si deve mica esagerare.
Finita la licitazione, dopo che un altro aveva comprato la cavalla, l'agente si soffermò un'ultima volta a osservarne il pedigree sulla pagina di catalogo. E si chiese dove diavolo fosse finita la mamma di Playful Act, che tutto sommato aveva ancora un’età utile per fare figli.
Chiese informazioni al suo vicino di sedia che (quando si dice il caso) era un tale che lavorava per Coolmore.
“La mamma di Playful Act l'abbiamo noi, è pure gravida di Galileo” gli disse. “Però ho parlato proprio stamane col caporazza che mi ha riferito che la cavalla ha gonfiato la mammella molto prima del tempo, di sicuro starà per abortire”.
L’agente quasi non ci pensò sopra, e in un secondo fece la sua offerta: “Me la vendereste a prezzo scontato con la clausola che se poi il puledro nasce... pago la differenza? “
L'affare si fece - perché la fortuna passa vicino, ma si deve anche saperla prendere-.
Il puledro nacque, Lady Serena pagò la differenza, ed ecco fatto Nathaniel, da Galileo e Magnificent Style, la mamma di Playful Act.
C'è voluto Frankel per batterlo, al loro comune debutto, e solo di mezza lunghezza.
Io non posso immaginare che ci sia qualcuno su questa terra che si rende conto di quale fosse la quota ragionevole per una serie di vittorie come quella inanellata dai cavalli di Lady Rotschild, con così poche fattrici. Non so...1000 contro 1? Io credo ancora più alta.
Nat Rotschild non la sa, peraltro. Perché ha compensato il mio amico solo con un giro sul suo yacht (il mio amico ha detto che è uno yacht bellissimo, comunque).
Nathaniel, l'ho visto. Da fermo è un bel cavallo. Poi si muove, e ha una eleganza stratosferica. Ho visto solo un altro cavallo nella mia vita che era come lui, Nashwan. Però Nashwan da fermo era un pò troppo mastodontico, imponente.
Quando Nathaniel è andato in razza i dementi hanno subito sentenziato che era un cavallo di troppo fondo, scordando il suo entusiasmo per l'atto della corsa. E’ la caratteristica che ho ritrovato in Enable, vedendola in TV. Corre con aggressività, con slancio. Si vede che lo fa col cuore. Uno spettacolo. Con lei, non è una questione di fantino, mi pare. Va di suo.
Chissà se i dementi di cui sopra possono capirlo, credo di no. Avranno ancora da pontificare sul troppo fondo: la mamma di Enable è figlia di Sadlers Wells, grande stallone classico su cui Enable è inbred. La seconda madre è figlia di Shirley Heights che ha vinto il Derby, come suo papà, la terza di Ile de Bourbon che ha vinto le King George -come suo papà-.
Non mi pare che tutto questo fondo abbia rallentato Enable: forse ha rallentato il cervello di quelli che commentano le corse!
A ciascuno la stessa porzione, ma più siamo più le parti sono piccole (mediocrità), meno siamo e più grande la fetta che spetta a ciascuno (genialità)
Nel suo eccellente e ben documentato libro, Il mito di Tesio, uno dei più impegnati studiosi di temi riguardanti i cavalli purosangue, Franco Varola, cita “un curioso principio biologico, valido pure per gli uomini, per il quale i valori migliori sono espressi all’interno di in campione ristretto di popolazione piuttosto che di uno molto ampio.” Una conferma di questo principio Varola la riscontra nella capacità, che l’ippica italiana ebbe producendo espressioni (cavalli) di sicura qualità intorno agli anni venti del secolo scorso, quando complessivamente il numero di purosangue in attività era di soli 424 soggetti. E’ una conclusione, quella del profondo analista, che mi trova pienamente allineato, anche se partendo da presupposti di tutt’altra natura. In effetti, se si pensa all’esplosione di personalità superiori, di veri e propri geni, che caratterizzò la cultura Rinascimentale in Firenze e dintorni quando la città annoverava poco più poco meno di 25 mila abitanti, la spiegazione più accettabile risiede nel rispetto del sopracitato principio.
Se esaminiamo l’attuale consistenza delle nascite di purosangue in Italia che si è progressivamente ridimensionata nel corso di questi ultimi anni potremmo sperare che quel principio non sia lontano dal riproporsi. Il classico colpo di coda foriero della risalita qualitativa. Ma anche se così dovesse essere per la prossima generazione di puledri, i tempi di attesa non sarebbero inferiori ai tre-quattro anni.
Ne mancano i presupposti. Non si vede oggi all’orizzonte né un nuovo genio ippico come Federico Tesio e neppure le condizioni per la rinascita di allevamenti nazionali tali da selezionare cavalli del tipo classico professionale, cioè di quelli che furono lo scopo, pienamente raggiunto al livello più elevato con Donatello II, Cavaliere d’Arpino, Nearco e Ribot, di tutta una vita del Maestro. Allora ciò fu reso possibile mediante continue importazioni di fattrici pregiate e l’utilizzo di stalloni stranieri prestigiosi.
Va riconosciuto che oggi il mercato delle aste internazionali è salito alle stelle, non più alla portata dei nostri operatori.
Del resto l’Italia non dispone di ambienti naturali ideali confacenti alla produzione di purosangue com’è per esempio, in Inghilterra, Normandia, Irlanda, Kentucky, Uruguay, Argentina, Nuova Zelanda (cito Varola).
E poi siamo, una volta tanto, realisti e crudi il necessario: l’atmosfera antica non è più qui: la volgarità è entrata a vele spiegate nei recinti della nostra ippica, non più sacri ma fattisi più simili a luoghi di libero accesso dov’è di tutto e di più. I fantasmagorici e bizzarri cappelli floreali esibiti dalle nobildonne e dalle cocotte, frequentatrici vuoi per dovere di etichetta vuoi per esibizione, dei recinti di Epsom o di Ascot, quei copricapi dicevo, non hanno il potere magico di trasformare, se indossati nei nostri campi di corse, in eleganti e ammirate figure femminili le presenze palesemente estranee al decoro richiesto dal luogo. Quando l’indossare la cravatta ha perso il suo significato, quando la presenza sul campo di corse di Elisabetta Regina o di Sua Magnificenza l’Aga Khan viene sostituita da quella di un qualunque Assessore comunale allo sport, siamo in un altro mondo.
Non ci rimane che il Palio di Siena
Quando una qualsiasi iniziativa si radica stabilmente nelle scelte di una comunità umana organizzata ecco che le arti ne fanno oggetto dei propri specifici interessi e produzioni. La cultura identifica quel popolo. E’ questa la ragione per la quale in Gran Bretagna celebrati pittori come Gericault, Stubbs, Pollard e letterati dei vari generi, bardi, poeti, filosofi, narratori, novellieri, hanno celebrato i campioni, le imprese, il mondo complesso e coinvolgente dell’ippica dei purosangue fin dal suo sorgere a partire dal secolo XVII; con una produzione vasta, varia e di eccelsa qualità. In una realtà ambientale meno ricca dei cromatismi e delle aperture culturali proprie dei Paesi mediterranei il cavallo e i suoi contesti sono divenuti materia di ispirazione, anche per il forte rispetto nelle tradizioni feudali che distingue gli anglosassoni.
Autori universali come Levy-Straus, Kafka, Tolstoj dedicarono all’essenza dei purosangue brani che è impossibile dimenticare.
Nella sostanza quell’ippica è entrata, potremmo scrivere è emersa, nel dna degli albionici, divenendo un diffuso e stabile fenomeno culturale sostenuto con formidabili risvolti economici ora come allora.
L’Italia fu, come sempre è stato, pronta a raccogliere e promuovere l’avvento dell’ippica sportiva rimanendo tra le nazioni leader europee fintanto che l’interesse per l’allevamento dei purosangue ed i suoi aspetti scientifici, le imprese agonistiche e le conseguenze divulgative ed estetiche rimasero in realtà un fenomeno circoscritto, elitario. L’Italia del cambiamento sociale ed economico che ne seguì dopo la seconda guerra mondiale, quella dei capitani d’industria, si è rivolta ad altri sport più popolari sotto la pressione politica nuova, sotto i profondi mutamenti delle gerarchie sociali. Particolarmente a partire dalla metà del secolo scorso per non aver contagiato né le intellighenzie professionali né le classi minori, dalle quali ultime ricavare i supporti economici indispensabili e la pressione della passione popolare. Mutavano i gusti, gli interessi, i protagonisti e soprattutto la stoffa di costoro. Di conseguenza i nomi di Tesio, Canti, Arpisella, Varola, Gianoli, Incisa della Rocchetta, Giubilo non hanno avuto epigoni pari loro. Cancogni e Celati confluiscono tuttalpiù in una corrente giornalistica. Così come il pittore livornese Cesetti rappresentò una originale curiosità pittorica legata al territorio, decisamente marginale e isolata. Del resto si deve ammettere che in un Paese sovrabbondante di tematiche artistiche di successo in quanto protagonista del Rinascimento non ci fossero vuoti culturali tali da riempire rivolgendosi all’ippica.
Non mi sento di escludere che un ruolo in questa direzione decadente potrebbero averlo avuto personaggi prestigiosi come Federico Tesio, Alberto Chantre, Giuseppe De Montel, Mario e Vittorio Crespi e pochi altri. Questi, giganteggiando in successi per meriti propri, limitarono ogni proiezione culturale esterna al ristretto cerchio di militari di cavalleria, ricchi aristocratici e latifondisti; beninteso contro le loro stesse intenzioni. Quella loro ippica, che raggiunse livelli impensabili - volendo esagerare, li definirei rinascimentali - fu sì prestigiosa e ricca di successi, ma si è rivelata generazionale, di non lunga durata. Poi sono venuti a mancare i grandi progetti allevatori, base propulsiva di ogni adeguamento al progresso tecnico del settore. Ignoranza politica e mediocrità burocratica i mandanti primi del misfatto di cui le cronache, nelle cui pieghe nulla sfugge, conserveranno i nomi responsabili.
L’ippica italiana dei purosangue si sta irrimediabilmente esaurendo, dal momento che le sue regole forti, la sua insostituibile disciplina di schietta origine militare sono state abbandonate in nome di false esigenze lontane dai concetti della vera democrazia, pessimamente gestite. Né si scorgono segnali di inversione della rotta che porta al naufragio. Dovremmo rimpinguare il nostro parco fattrici con l’importare femmine di qualità. Avviene l’esatto contrario: quelle che emergono dalle nostre prove classiche vengono vendute per necessità economiche. In questo quadro desolante un solo settore è in controtendenza: produciamo ancora oggi, uso volutamente un vocabolario di estrazione industriale, tra i più affermati fantini in attività sul palcoscenico internazionale: Dettori, Atzeni, i fratelli Demuro, Vargiu.
Tenerani, tanto fondo e alta classe
Una breve nota scritta per dovuta riconoscenza. La prima impressione che dai è quella che ti rimane attaccata sulla pelle. Tenerani (Bellini e Tofanella da Apelle) fu soggetto tardivo, non particolarmente attraente tanto che per la carriera a due anni Tesio gli aveva preferito Duccio, ben più pronto e brillante nell’imparare il mestiere. Tale gerarchia fu mantenuta all’inizio del terzo anno d’età nel Premio Emanuele Filiberto dove a Tenerani spettò la seconda monta di scuderia e il posto d’onore dietro al compagno. Si trattava della generazione uscita da Dormello nell’anno 1944.
In gioventù Tenerani, pur promettente, si presentava ordinario e pigro; ebbe a completarsi con il passaggio d’età acquistando potenza e personalità. Le presenze, tra i suoi ascendenti, di Havresac e di St Simon dal lato maschile, di Hampton in quello femminile, non potevano che garantire l’eccellenza agonistica per questo nipote di Cavaliere D’Arpino. Derby Italiano, Premio d’Italia, Gran Premio di Milano, St. Leger, Premio del Jockey Club rappresentarono una formidabile catena ininterrotta di successi classici nazionali che spinsero la proprietà a richiedergli una valorizzazione oltre i confini. Seguirono le vittorie inglesi nelle Queen Elizabeth II ad Ascot e nella Goodwood Cup per consolidare la statura internazionale di assoluto prestigio da attribuirsi alla riserva inesauribile di energia con la quale Tenerani affrontava gli impegni. Con la raggiunta maturità migliorava di corsa in corsa. La sua superiorità sugli avversari gli veniva dal suo incedere roccioso e privo di flessioni con l’allungarsi della distanza cui si aggiungeva il possesso di una accelerazione finale da soggetto classico. In lui la componente tra il classico e il professionale era spostata a favore del secondo, senza per questo farne un soggetto monocorde. E’ storia nota, Varola cita al proposito una sua personale esperienza, che Tesio e la di lui moglie donna Lydia Flori di Serramezzana, non amassero molto Tenerani, forse per via della valutazione ricavata dagli esordi giovanili come ho ricordato in principio. E non gradirono l’opinione, pubblicata su di una rivista inglese dallo studioso, che Tenerani fosse il miglior fondista mai nato in Italia, tanto da palesargli il loro dissenso.
Oltre al palmares indubbiamente di grande pregio il merito che si aggiunge e dà contenuto alla prima frase di queste mie poche righe dedicate al ricordo di Tenerani è quello di averci dato, in connubio con la fattrice Romanella (El Greco e Barbara Burrini da Papyrus) uno dei più eccezionali soggetti che abbiano calcato i massimi palcoscenici del turf, Ribot ‘le meilleur cheval du monde’ come ebbe a sentenziare la stampa d’Oltralpe costretta a rinunciare per l’occasione al tradizionale suo sciovinismo. Tanto basta per non farlo dimenticare.
Al termine della iniziale parentesi stalloniera svolta in Inghilterra - Ribot infatti nacque a Newmarket il 27 Febbraio 1952 - Tenerani rientrò in Italia per iniziativa della Razza di Vedano, ma, non adeguatamente servito, generò figli non degni di particolare menzione.
Nel formulare una sua classificazione dei migliori vincitori di Tesio sulla base dell’importanza delle corse vinte e sulla qualità delle prestazioni sempre Varola inserisce Tenerani nel ristretto gruppo dei crack, in sottordine a quello elitario comprendente Cavaliere d’Arpino, Nearco, Ribot e Braque per la sola ragione che questi ultimi chiusero la carriera da imbattuti.
Una nota a margine. Romanella, puledra brillante che fu destinata da Tesio a Tenerani per aver vinto il Criterium Nazionale del 1945, si distingue tra le fattrici più significative di Dormello pur non avendo altro merito al di fuori dell’essere stata madre di Ribot.
Marguerite Vernaut, una star del turf
Marguerite Vernaut (Touluse Lutrec e Mariebelle da Mieuxce), dunque attraverso Dante discendente da Nearco, era una splendida purosangue di mantello sauro chiaro ereditato dal padre che sarebbe stato un vero peccato non fosse stata altrettanto splendidamente brava. Vinse i Primi Passi, il Criterium Nazionale e il Gran Criterium a due anni nella prospettiva di affrontare il Derby da puledra superiore ai coetanei maschi.
In preparazione al massimo evento classico di Capannelle sostò all’ippodromo fiorentino del Visarno, com’era consuetudine dei soggetti di prima categoria di stanza al nord, per un ben remunerato galoppo pubblico nel primaverile Premio Firenze. A quel tempo l’impianto fiorentino era pista selettiva e conservava ancora le vestigia del restauro primo novecento che prevedeva l’impiego prevalente del metallo in architettura. Poi c’era la presenza dei ruderi risalenti all’origine e quindi sottoposti alla tutela dalla Sovrintendenza ai beni artistici: un patrimonio culturale tra i tanti in Firenze.
Nell’occasione l’avvocato Crovetti, titolare della scuderia Oleandro, restio ad abbandonare la tradizione inaugurata da anni, sottolineava la sacralità dell’evento esibendo tight e tubino grigio come si fosse ad Epsom per celebrare la primavera anglosassone. La scanzonatura toscana era lì in agguato, un irreprensibile merlo tra i molti irriguardosi passeri chiacchieroni, ma il gentiluomo non dava a curarsene. Questione di stile. Nel mentre un tal Frati, “il barba”, fanatico dormelliano, con il figlio immancabilmente dappresso, concionava dicendosi certo della prossima conquista del Nastro Azzurro. Catturato un crocchio eterogeneo di ascoltatori tenne il suo sermone.
Dunque, sotto i miei occhi di aspirante appassionato ma nel cuore già tifoso dei colori di Dormello, Marguerite Vernaut percorse i suoi giri nel tondino di presentazione del Visarno facendo sfoggio di una condizione superba, di quella che definirei una dignità equina superiore: di grande struttura, atletica, in un contesto armonico che esprimeva potenza e fascino. Magnifica puledra: così a me parve. Alla staccionata appassionati inveterati e semplici curiosi, figure eleganti dei palazzi nobiliari della via Tornabuoni e gente del popolo non facevano mancare la loro variata presenza. In corsa, giusto all’altezza dei primi ruderi di metà dirittura le fu chiesto a braccia di accelerare, oserei dire per soddisfare il pubblico esigente, e lei rispose alla sollecitazione con un allungo bastante a soverchiare la sparuta compagnia: il massimo risultato con il minimo sforzo, tanto per mantenere la condizione agonistica in previsione degli impegni classici alle porte che l’attendevano.
Roma si preparava a sottostare ai suoi zoccoli regali, senonché il destino o, se volete chiamarlo altrimenti la splendida incertezza del turf, aveva deciso un finale differente: quello che avrebbe dovuto essere un disbrigo formale fu sconfitta. Più bruciante, perché immeritata, imputabile alla condizione femminile del momento che vide Marguerite Vernaut soccombere ad un avversario non alla sua altezza, Fils d’Eve (Wild Risk e Fille des Chaumers da Prince Bio) montato da Otello Fancera, Ettore Tagliabue il fortunato proprietario. Lei ristabilì presto la supremazia sui coetanei affermandosi prima nel Premio Emanuele Filiberto a tempo di record poi nel Gran Premio d’Italia.
Ma alla prova dei fatti le condizioni sfavorevoli, quando sono immeritate si rivelano episodiche, destinate a non lasciare scorie. Si imponeva a completamento dei successi in patria un esame internazionale che fu individuato nei 2000 metri in dirittura delle Champion Stakes del 1960 a Newmarket. La corsa si svolse nelle condizioni ambientali meno favorevoli: una improvvisa grandinata disturbò i concorrenti durante il canter per raggiungere le gabbie di partenza. Al via Marguerite Vernaut fu la più lesta ad assumere la posizione di vertice imponendo alla corsa una andatura sostenuta tale da sottrarre ai rivali il destro per sottoporla ad iniziative premature. Nel finale Never Too Late, la puledra vincitrice delle 1000 Ghinee e delle Oaks inglesi, portò un affondo violento dando anche l’impressione momentanea di poter prendere il sopravvento, ma il suo tentativo fu inefficace davanti alla vigorosa reazione della rivale che sul traguardo mantenne mezza lunghezza di vantaggio: un duello eccitante tra due cavalle di primissima classe.
Sulla base della prestazione inglese il Timeform attribuì a Marguerite Vernaut il rating di 129.
Yeats
A Ballydoyle Aidan O’ Brien stimava Yeats (Sadler’s Wells e Lindonville da Top Ville) come il suo migliore allievo della generazione 2001, tanto da parlarne come di un nuovo Galileo. Un giornalista italiano buon conoscitore dell’ippica inglese e assiduo frequentatore dei suoi ippodromi si disse convinto che il puledro non avrebbe avuto contendenti in grado di impensierirlo ad Epsom. Queste erano le voci ricorrenti oltre Manica.
A smentire tanta sicumera nel Roll of Honor del Blue Ribbon al 2004 compare il nome di North Light (Danehill e Sought da Raibow Guest) per il training di Sir Michael Stoute e la monta di Keiren Fallon. Non un sovvertimento di valori, bensì un malaugurato incidente: nelle fasi preparatorie all’imminente impegno classico Yeats aveva patito un trauma muscolare, non particolarmente grave ma comunque tale da sconsigliarne l’impiego: l’allenatore del team Coolmore fu costretto a dare forfait. In questa impossibilità a correre il derby possiamo vedere un’analogia con quanto accadde a Ribot vittima di una sobbattitura che gli risparmiò gli impegni classici primaverili.
Il malcapitato incidente e la conseguente sosta forzata preclusero a Yeats la partecipazione alle classiche generazionali britanniche, ma suggerirono all’allenatore di evidenziarne la professionalità e così indirizzarlo alla prove del gran fondo.
Se dunque Yeats, che prende il nome dal poeta irlandese William Butler Yeats, non può fregiarsi del titolo più ambito, quello che colloca un purosangue sul più elevato gradino del racing, con il senno di poi possiamo affermare che quella assenza forzosa anziché nuocergli sia stata foriera dei suoi grandi meriti di superbo stayer. Dando prova di una resistenza inesauribile allo sforzo prolungato Yeats è stato capace di vincere, per quattro anni consecutivi, dal 2006 al 2009, una delle prove di maggior prestigio del calendario inglese, l’Ascot Gold Cup: un’impresa formidabile che non aveva precedenti. In occasione del primo alloro in sella era salito Kieren Fallon, nella seconda occasione Michael Kinane, nelle due ultime annate Johnny Murtagh. Il poker di vittorie, difficilmente ripetibile, si è meritato un riconoscimento straordinario, che è consentito in una statua a grandezza naturale del campione, per la cui presentazione inaugurale entro i recinti dell’ippodromo ha voluto presenziare la Sovrana inglese Elisabetta II.
In 22 presenze Yeats ha collezionato ben quattordici vittorie, comprendenti Goodwood Cup (due volte), Coronation Cup, Prix Royal Oak, Irish St Leger: un bottino impressionante.
Un modulo dispettoso
Come fu che un purosangue italiano, nato nei pressi di un pollaio contadino, rischiasse di venire iscritto alla più prestigiosa corsa per stayers del vecchio continente, ossia la Gold Cup di Ascot, merita di essere riferito anche se la catena di eventi qui descritta potrà sembrare inventata di sana pianta. Sono dunque consapevole di correre un rischio: passare cioé per emulo del celeberrimo fanfarone Barone di Munchausen o, scendendo di qualche gradino nella letteratura, dell’altrettanto fantasioso Jim Bridger, uno degli eroi dell’avventurosa conquista del west americano.
Del resto, trattandosi di cavalli anche quello di lasciar ‘galoppare’ la fantasia non sarebbe uscire dal tema, anzi. L’animale in questione vanta buone referenze genealogiche: consanguineo per parte di padre del campione americano Fort Marcy (Amerigo e Key Bridge), vincitore di due Washington DC, risale in linea femminile ad una gloriosa famiglia di fondisti caposaldo dell’allevamento Tagliabue, uno dei più attivi nell’Italia del dopoguerra. La sua testa ricorda sorprendentemente quella dell’avo materno Princequillo, uno dei sire di maggior prestigio dell’allevamento d’oltralpe.
Espongo i fatti, prendendola larga come ebbe a giustificarsi davanti al giudice un personaggio minore nel sapido ‘Tre uomini a zonzo’ di Jerome K. Jerome capolavoro della letteratura umoristica inglese. E’ universalmente noto: la Gran Bretagna non gode di un buon clima. La rappresentazione classica del suddito degli Windsor ce lo propone con indosso l’immancabile impermeabile Aquascutum, la bombetta in testa e l’ombrello in mano. In quella fine di ottobre che segna l’inizio della nostra storia l’isola che vide le gesta di Robin Wood era flagellata da tempeste di pioggia e vento secondo la migliore tradizione meteo del Paese che fu di Carlo V prima che Oliviero Cromwell lo facesse decollare. Ad Ascot, uno dei templi dell’ippica inglese, la Authority che gestisce l’ippodromo ha sede in un edificio ottocentesco di Bond Street. Miss Patricia Abbott vi lavora da anni negli uffici della segreteria tecnica sita al terzo piano. In virtù dell’anzianità di servizio e dell’efficienza che i superiori tutti le riconoscono ‘Pat’ (per gli amici) gode di un privilegio non da poco: un’intera stanza è a sua disposizione. La cosa le dà modo di trascorrervi in santa pace l’intervallo per il pranzo, durante il quale Patricia consuma il suo sandwich, al salmone o al beef con sottaceti senza spazio alle deroghe gastronomiche, e si prepara un thé Twining al sapore di pesca. Durante quel rito le scartoffie che occupano la scrivania vengono ammucchiate da un lato per lasciare spazio al dispiegamento della tovaglietta (centrino) all’americana a salvaguardia dell’integrità del vetusto mobile.
Sulle pareti lasciate libere dagli scaffali stampe e pitture raffigurano questo o quel famoso purosangue vincitore sulla pista di casa nei tempi andati. Sul piano della scrivania, un ferro di cavallo in alluminio come fermacarte ed una cornice elegantemente sobria che racchiude la fotografia del famoso jockey Lester Piggot, il quale l’ha corredata dell’autografo con dedica in uno dei suoi rari momenti di filantropia. Fra tutta questa esaltazione di sport c’è una nota di gelo normativo consistente nel cartello col divieto di fumare. Chi entra nel locale se lo trova proprio davanti agli occhi e non ha scampo.
Era un giorno qualsiasi della settimana, talmente anonimo da non meritare altra menzione. Nonostante tirasse un vento impetuoso, capace di togliere il fiato con rabbiose folate assassine, la finestra dell’ufficio della Abbott era stata aperta per un breve ricambio dell’aria al termine dello spuntino. Segno di come quello che alcuni bempensanti si ostinano a definire ‘caso’ tracci i suoi diagrammi con lucidità impressionante.
Questa la scaturigine degli eventi. Aggredita dal turbinio una pila di moduli per le iscrizioni alle corse del Royal Meeting si scompose ed un certo numero di fogli si sollevarono come cavalli imbizzarriti prima di venire trascinati all’esterno da un vortice più intrigante degli altri. Volarono via, alla mercé di quella forza scatenata come piccoli aquiloni svincolatisi dal filo. In un amen scomparvero dalla vista dell’attonita e sgomenta impiegata.
Lo si sarebbe detto un trascurabile, banalissimo incidente senza conseguenze. Così non fu: evidentemente uno di quei fogli era manovrato dal destino. Sorvolò la Manica, lasciò sotto di sè la Normandia, percorse tutto il bacino del Rodano, quindi si diresse verso sud-est; per planare giù giù fino all’impatto con il suolo, che fu l’aia di una piccola fattoria nel retroterra costiero della Toscana, in terra di maremma.
Era un foglio inglese genuino, dotato di stile e rispettoso delle regole di buona creanza. Dunque evitò di cadere in un rigagnolo o nel pattume, ma concluse - con discrezione e signorilità si direbbe - quel suo viaggio travagliato, fino a posarsi sul ghiaino fine e asciutto dove sarebbe stato difficile sporcarsi.
Se fosse stato ignorato, oppure lo avesse raccolto uno dei salariati a giornata, questa storia non sarebbe neppure iniziata; venne invece tra le mani del vecchio Francesco, il padrone del terreno. Costui aveva una passione per i cavalli da corsa e masticava benino la lingua inglese, appresa durante l’ultima guerra quando aveva frequentato le truppe alleate di liberazione. Poi erano stati i turisti nordici, che sulle coste toscane non disertano mai, ad averlo tenuto in esercizio. Altrimenti non avrebbe aperto le sue stalle ai purosangue, nella fattispecie alla fattrice Maura Jung (da Jung) e al suo puledro. Il cavallino risulta figlio di Icecapade Duke (da Forlì) uno stallone americano che fu importato in Italia già in là con gli anni avendo deluso come riproduttore nel suo Paese a dispetto della eccellente genealogia e di un’ottima carriera di corse. Ma si sa che anche nelle famiglie più ripettabili può nascondersi la ‘ pecora nera’ e l’Icecapade sembra essere stato di quello stampo. Dunque il puledrino, l’ultimo dei suoi sciagurati prodotti italiani, è un probabile candidato a “non venire da corsa” come si dice in gergo. Nonostante queste referenze preoccupanti l’animale si presenta senza difetti fisici, è di buon carattere e appetito, così che la speranza di trovare un acquirente non ha abbandonato il suo allevatore.
Dunque il Francesco, detto ‘frullone’, vide in quel modulo arrivato dal cielo un segno della sorte, né più né meno come avrebbe potuto esserlo una bottiglia abbandonata dalla risacca sull’arenile di Principina a Mare con dentro il messaggio di un naufrago nel Tirreno. In attesa di farne buon uso lo mise dentro la bustina di celofan con cui proteggeva una pagina strappata da un quaderno a quadretti con su scritte la data di nascita e l’origine del puledro, ossia una carta d’identità alla buona, del figlio della Maura: un invito rivolto alla sorte perché gli fosse amica. Che padre putativo sarebbe colui che non facesse affidamento sulla provvidenza per il proprio figlioccio?
Da buon maremmano Francesco amava la caccia, dunque sapeva mettersi di posta armato di pazienza. Agli amici del barrino che lo sfottevano rispondeva ammiccando: “Vedrete che prima o poi un pennuto migratore da prendere di mira si presenterà.” Le labbra pronunciavano la parola pennuto, ma il cervello gli diceva ‘merlo’. Voleva significare che uno sprovvedutello di città disposto a comperare il puledrino con annesso viatico della fortuna, cioé il modulo inglese portato da Eolo, sarebbe comunque arrivato prima o poi. La passione per il cavallo avrebbe fatto il resto. Come Catone il censore concludeva ribadendo convinto un concetto: “Il puledro è assai ben fatto ed ha un gran ‘pedigree’.”
Ma un possible compratore di passaggio in quelle contrade periferiche per volere del fato tardava a farsi avanti. La gente di città non si faceva più abbindolare con la facilità di un tempo. Fu d’obbligo ripiegare sugli stanziali, i cavallari della zona. La scelta cadde sull’avvocato Ottaviano Pinelli, molto onorevole Giudice di Pace presso il Tribunale di uno storico comune della vallata dell’Arno sito tra Empoli e Pisa: uomo probo, cauteloso per carattere e professione. Costui possedeva del terreno agricolo nel comune di Cecina, vi allevava cavalli mezzosangue da sella e credeva nell’esistenza della pietra filosofale come tutti i letterati digiuni delle scienze sperimentali. Cioé coltivava in cuor suo il sogno di scoprire in una stalla dimenticata da Dio il grande campione. Pagarlo una manciata di spiccioli e vincerci molto sarebbe stato fantastico. Dunque al signor Ottaviano il cavallo del Francesco parve come la realizzazione delle sue speranze segrete e la negoziazione si sarebbe conclusa con reciproca soddisfazione se non fosse intervenuto un elemento nuovo. Nell’affare doveva entrarci, come socio minoritario dell’acquirente, un concittadino docente universitario a lui legato da amicizia di lunga data. Questi aveva fortuitamente raccolto un’informazione disastrosa: lo stallone Icecapade Duke generava cavalli marci. Per ‘marci’ si intende che le ossa fragili non sopportano le tensioni delle masse muscolari e si infortunano facilmente. Un disastro per un cavallo destinato alle corse.
L’acquisto andò a monte. anche perché si scoprì un’altra magagna: la nascita del cavallo per l’insufficiente conoscenza delle pratiche da espletare non era stata correttamente registrata presso l’U.N.I.R.E., l’Ente tecnico preposto alla funzione.
Un altro si sarebbe disperato e scoraggiato. Non così il ‘frullone’, cui l’essere un campagnolo di poca cultura ma sostanzialmente schietto nella sua spontanea semplicità conferiva la capacità di indurre negli altri un atteggiamento benevolo, tramite il quale si chiudono gli occhi sulle sue omissioni e fesserie. Il problema di tipo burocratico riguardante il puledro gli fu risolto con una mano sul cuore. Ci volle, come si usa dire, del buono e del bello, compreso l’intervento di un legale che ricordasse ai rinoceronti della parte pubblica l’obbligo di non trascurare all’infinito certi doveri, ma alla fine fu data parola che la pratica sarebbe stata felicemente sbrigata. Nel frattempo il puledro cresceva sano, forte e vivace. Dovrei aggiungere “sorprendentemente viste le limitazioni ambientali” non fosse che quando la natura ha deciso di privilegiare un individuo non c’è forza al mondo atta a farle cambiare indirizzo.
Allorché il signor Ottaviano vinse le difese del riottoso professionista suo amico convincendolo a visionare comunque il cavallo, avvenne un deciso mutamento di rotta nell’atteggiamento tenuto fino ad allora da costui. Come prima era stato ispirato da diffidenza e scetticismo, ora traboccava piena ammirazione. Trovandosi davanti uno splendido animale nonostante questo fosse sacrificato dentro uno spazio angusto che ne mortificava le qualità senza tuttavia poterle nascondere, l’uomo lo prese subito in gran simpatia. La testa dell’animale era portata da un collo taurino sinonimo di forza. Tutto in quell’animale esprimeva una possanza ed un equilibrio delle forme rimarchevoli. Il locale dentro al quale il Francesco lo albergava era davvero una baracca di legno affiancata al pollaio, ma per il resto l’agricoltore doveva trattarlo come un figlio, tanto che non ci fu bisogno ne magnificasse le doti, invero manifeste anche per uno sprovveduto. E poi c’era l’asso nella manica, ossia il modulo inglese, che aveva il fascino della manifestazione di una volontà superiore.
Il magistrato fu incaricato dall’amico di riprendere le trattative di acquisto, con la clausola che se non fosse arrivata dall’UNIRE la regolare registrazione del cavallo la somma sborsata sarebbe stata restituita all’acquirente ed il cavallo allo sfortunato - in quel caso - allevatore. Fu deciso di suddividere la cifra spesa in dieci carature, così che nell’affare entrarono anche altri due conoscenti dei primi acquirenti. In tal modo il figlio di Icacapade Duke divenne, con un’immagine impropria, il capitale circolante di una ‘public company’ come oggi si usa dire.
Il 31 dicembre del 2006 un primo acconto sul prezzo stabilito per la transazione passò dalle mani di Pinelli a quelle di un soddisfatto ‘frullone’, la cui pazienza di uomo fiduciosamente legato alle attività agricole era stata infine premiata.
Per valutarne l’idoneità a divenire un corridore lo yearling fu trasferito presso un centro di allevamento della provincia di Siena, accompagnato da numerose speranze che lo sovraccaricavano di responsabilità. Si temette che l’impatto con il van avrebbe potuto trovarlo impreparato e diffidente, invece tutte le operazioni di carico sul mezzo e discesa da esso misero in luce la ‘professionalità’ ed una fiduciosa disciplina dell’animale. Come primi segnali, furono incoraggianti: il buon carattere c’era eccome.
Nel frattempo si era formalmente conclusa anche la pratica con l’Ente Tecnico: il regolare ‘passaporto’ fu spedito ai legittimi proprietari. I quali ebbero la spiacevole sorpresa di leggere l’assurdo nome assegnato all’animale: Mister Duche. Saputolo il professionista che si era riservato solo un 10% del cavallo espresse apertamente la sua soddisfazione per non figurare pubblicamente. Non voleva avere di che vergognarsi e quella bruttura gli pareva una macchia sul suo buon nome conquistato con una condotta di vita integerrima. Esserne compartecipe gli sembrava un’azione obbrobriosa. Da uomo profondamente pio temeva che la comunità parrocchiale lo avrebbe escluso quando si fosse conosciuto il suo coinvolgimento. Fu fatta l’ipotesi, giudicata assai probabile, che nelle intenzioni del ‘frullone’ il nome fosse stato quello di Mister Duke, storpiato non si sa bene da chi nella versione registrata ufficialmente, ma ciò poteva essere una spiegazione, non una medicina per nessuno. Il boccone amaro andava comunque digerito.
All’inizio la risposta fisica del puledro fu piuttosto deludente. L’animale aveva messo su cuscinetti di grasso come un porcello, tanto da coprirsi di autentica schiuma quando venne sottoposto ai primi esercizi. Sotto le sollecitazioni prendeva il trotto anziché slanciarsi al galoppo: poveraccio, cresciuto in uno spazio angusto, mortificante per un purosangue, si era abituato a far lavorare gli anteriori. Darsi la spinta energica con le zampe di dietro fino ad allora non gli era mai stato necessario. Anziché distendersi in una falcata redditizia arrotondava l’azione pesticciando il terreno. Osservandolo, ad uno dei soci proprietari venne da chiedere con involontario cinismo se le speranze di vederlo in pista si riferissero non tanto all’Arc de Triomphe sulla pista di Longchamp quanto al Cormulier la maggiore corsa al trotto montato che si corre sulla carbonella nera di Vincennes. Punto sul vivo il signor Ottaviano ne rise a denti stretti.
Per intanto in virtù del carico di lavoro cui veniva sottoposto l’animale smaltiva l’eccesso di peso tonificando la muscolatura. Non sopportava di restare al chiuso nel box più di qualche ora e, una volta esaurita la razione di mangime, si esibiva per farlo comprendere: tentava di divellere le sbarre metalliche della metà superiore della porta o sbatteva rumorosamente lo zoccolo contro il legno della metà inferiore per attirare l’attenzione. Insomma aveva l’argento vivo addosso. Tale era la vivacità con la quale manifestava la sua indole che ben presto fu necessario rinforzare il cancelletto, la cui resistenza veniva messa a dura prova durante la notte dalle spallate dell’energumeno. Al mattino poi, l’animale voleva essere il primo ad uscire all’aperto. Possedeva un’esuberanza straordinaria, cui bisognava dare sfogo. Si poteva stare sicuri: se l’avesse liberata nel mestiere di corridore avrebbe ricompensato i proprietari.
Non passò molto tempo - poco più di due mesi - che gli esercizi al tondino divennero insufficienti a disciplinare la vigoria del cavallo. Il quale aveva mantenuto anche nella stagione invernale un pelo corto e lucente, segno certo di condizione fisica all’apice. La decisione di affidare il cavallo ad un allenatore che ne saggiasse le capacità di corridore si fece urgente. A tal fine i comproprietari raggiunsero un accordo con un professionista, tale Dresda, di stanza presso l’ippodromo di Firenze. Ciò affinché Ottaviano, l’azionista di maggioranza, potesse seguire di persona i progressi nella preparazione atletica. Qualcuno avanzò delle perplessità sulla efficacia della scelta sostenendo che l’uomo ci andava pesante con i pensionari, ma senza suggerire indicazioni alternative accettabili per tutti. D’altra parte nelle scuderie con pochi cavalli accelerare la preparazione non è un metodo fisso. Piuttosto, quando i guadagni scarseggiano e preme la necessità di farli scendere in pista per ‘portare fieno in cascina’ corre l’obbligo di pigiare sull’acceleratore.
La sentenza, se possiamo chiamarla così, ebbe dunque esecuzione. Il cavallo fu ospitato in un box del primo blocco, dal lato del velodromo, nella lunga teoria di scuderie che furono costruite dopo l’alluvione del 1966 al fianco della dirittura opposta all’arrivo del vetusto ippodromo fiorentino del Visarno. Subentrò al posto di un vecchio animale troppo malconcio per poter gareggiare e destinato probabilmente a guadagnarsi la biada in un maneggio. Dentro ad un cassetto della selleria finirono il libretto segnaletico rilasciato dall’UNIRE ed anche il modulo di iscrizione alle corse di Ascot che era piovuto dal cielo.
Il nuovo inquilino di scuderia era di altezza media, 1 metro e 61 centimetri al garrese, con una muscolatura forte ed equilibrata, da ‘miler’ dissero, e nell’ambiente il suo arrivo suscitò molte speranze. Lo conducevano in pista a metà del mattino per i primi esercizi. Il padrone seguiva con attenzione i lavori non appena le sue mansioni glielo permettevano e ne teneva informati i soci. La ginnastica preparatoria alle fatiche dei galoppi consisteva in estenuanti trottoni sulla pista di sabbia al fine di saggiare la resistenza degli arti agli sforzi prolungati. C’era una certa apprensione nel vedere come avrebbe preso quel carico di lavoro. Si, perché la diceria negativa che accompagnava il vecchio Icecapade Duke era un rovello difficile da dimenticare anche per un proprietario incline all’ottimismo. L’entusiasmo di costui fu messo subito alla prova. Dopo neppure una settimana di quel trattamento, sul cavallo al rientro in scuderia dopo gli esercizi fu osservata la prima ‘magagna’, consistente in un gonfiore non dolente a livello del tarso posteriore destro. Da sforzo o per un trauma? Nel primo caso c’era di che essere allarmati: chiamato a galoppare quell’arto avrebbe ceduto. Nella seconda ipotesi bisognava ridimensionare il fatto al grado di fastidioso contrattempo che avrebbe allungato i tempi della preparazione. Il cavallo fu fermato per un paio di settimane e impegnato solamente al passo nel tondino. Il che diede comunque i frutti auspicati con la perdita di ulteriore grasso. Nel volgere di due settimane il puledro sembrava un altro avendo acquistato in snellezza e tono muscolare. L’allenatore intensificò con più gradualità e pazienza i carichi di lavoro passando alle cacciarelle prima e ai canterini poi. Ciò avveniva sotto l’assidua sorveglianza del signor giudice che non disdegnava dare l’esempio ai garzoni, sia presentandosi a scuderia di buon mattino sia con qualche manualità estemporanea come fare la doccia al puledro dopo gli esercizi e persino somministrargli prodotti naturali ricchi di vitamine quali carote e frutta.
Le temperature estive di quell’anno si prolungarono fino a metà ottobre, cosicché non ci furono interruzioni nella preparazione atletica del cavallo, che venne intensificata, ma con prudente gradualità. Prima di tutto l’animale deve apprendere la disciplina del mestiere cui viene destinato, che non consiste nell’abbandonarsi alla corsa istintiva, ma richiede distribuzione delle energie, coraggio, e volontà di lottare. Tutte doti che l’uomo allenatore deve far emegere e addestrare una volta trovata nel singolo soggetto la chiave di lettura per esse. Mister Duche affrontò il tirocinio con duttilità.
Ci sono purosangue spontaneamente professionali, altri restii e con quel tanto di selvaggio da renderli difficilmente gestibili, altri pavidi e spenti. Anche il rapporto con le gabbie di partenza può richiedere certosina partenza. Dunque una scuola non facile né breve attende il candidato. Il figlio di Icecapade non fece una grinza quando gli fu chiesto di ingabbiarsi, nè ebbe esitazioni all’apertura improvvisa degli sportelli. Fin dal primo esercizio uscì con la necessaria sveltezza prendendo un galoppo confortante. Furono quattrocento metri e non più, ma percorsi a buona andatura. A quella vista allenatore e proprietario di maggioranza tirarono un sospiro di sollievo: si poteva sperare di farne un cavallo da corsa. Quanto al Royal Meeting, chissà: il modulo arriavato dal cielo non aveva una scadenza. Conservarlo non costava nulla. Il socio professionista, quello traumatizzato dal nome dell’animale, si teneva in disparte. Pronto a passare la mano? Scorrevano i giorni e gli allenamenti si intensificavano. “Potremmo debuttare a Pisa, in novembre”: più che una scadenza del programma fu un proclama destinato a rasserenare gli animi e rinfocolare speranze.
In quello stesso periodo c’erano tra i pensionari del Dresda due puledri ed una femmina di tre anni che si comportavano onorevolmente in corsa. Le fortune di scuderia erano prevalentemente affidate alla robustezza dei loro giovani garretti e alla capienza dei loro polmoni. Golden Pia, una figlia di Silver Wizard, aveva debuttato a due anni con una franca vittoria e si era già ripetuta. Una cavalla ben fatta e sincera. Selvatico aveva perso la qualifica di maiden e prometteva bene nella sua categoria. Il padre, Martino Alonso, appartenente alla Siba, fu un cavallo strambo su cui non avrei scommesso un diecino perché il più delle volte aveva le lune per traverso, ma come stallone stava avendo successo. Anche l’irlandesina Le Grange aveva incamerato un bel successo grazie alla monta del ‘rispolino’, senza dubbio l’allievo fantino più abile del circuito toscano.
Grazie alla pazienza dell’allenatore Mister Duche non era più quel ‘porcello’ insaziabile che ‘frullone’ aveva allevato, viziandolo come un figlio unico: via le masse adipose, dentro una muscolatura ben sviluppata e promettente. Niente da obiettare: si trattava di un bel cavallo. Quanto al bravo, era appunto il momento di dimostrarlo. Il segnale che l’ultima fase della preparazione alle competizioni era iniziata fu una frase del laconico Dresda raccolta dal professionista superstizioso durante una delle sue rare visite in scuderia: “Vediamo come reagisce alla velocità. Quella che dev’essere tenuta in gara.” C’era da incrociare le dita per scaramanzia.
Trascorse il novembre, grigio e parzialmente piovoso come dev’essere. L’unico a non aver furia era rimasto l’avvocato Ottaviano, che i compari nella proprietà si stavano domandando se Mister Duche avrebbe mai debuttato. Era come se si stesse giocando una partita di tennis: da un lato quelli che alla fine di ogni mese aprivano mal volentieri i portafogli cavandone le banconote e dall’altro colui che aveva sempre un motivo valido per giustificare l’insufficiente preparazione alla corsa del cavallo e chiedeva altro tempo. Nascondeva a se stesso e agli altri anche lo scetticismo che un Dresda sempre meno convinto gli trasmetteva, sia pure con cautela vedendolo così preso di entusiasmo per l’animale. Come l’amore per gli infingardi gatti randagi dei parchi pubblici porta certe insoddisfatte beghine a rimpinzarli quotidianamente di cibo suscitando in me il desiderio di torcere loro il collo, analogo sentimento muoveva Ottaviano P. a vantaggio del quadrupede. Pur senza saperlo, egli agiva come il capitano del veliero noleggiato da Jerome K. Jerome e consorte in vista di una programmata crocera: che il vento tirasse da nord, dal sud, da est o da ovest, non era mai quello idoneo a lasciare gli ormeggi e prendere il largo. Alla fonda, le derrate accatastate nella stiva per la permanenza in mare si assottigliavano ad opera della ciurma e del nocchiero stesso.
Ma per quanto si faccia arriva sempre il momento nel quale la realtà delle cose scoperchia la pentola del diavolo. Contro il suo stesso interesse l’allenatore gettò la spugna, confidando ad un conoscente che nell’eventuale debutto (in corsa a vendere) Mister Duche sarebbe arrivato “trecento metri dopo l’ultimo.” Altro che Gold Cup. In sintesi, ‘frullone’, l’uomo di campagna, l’apparente sempliciotto dalle scarpe grosse, aveva gabellato quelli della città, istruiti di teoria sì ma sognatori senza i piedi saldamente ancorati sulla terra. Si riconfermava una volta di più che non c’è miglior testo da leggere e praticare di quello scritto dalla natura stessa.
La smentita alle più pessimistiche previsioni, quelle per le quali uno dei soci proprietari aveva pronunciato la frase lapidaria: “E’ tanto più pratico far fretta ad una ghianda perché divenga quercia, quanto spronare questo animale a muoversi con la dovuta velocità”, avvenne tra le brume mattutine di fine novembre. Mister Duche diede la paga - credo si possa dir così - al suo accompagnatore durante un lavoro alé alé in pista da corsa. Un progresso, vistoso e inatteso, c’era stato; a mischiare le carte del mazzo. Come primo scontato risultato il cavallo accusava il mal di stinchi, ne più ne meno come un puledro di due anni dopo il suo primo impegno di una certa consistenza. Ma quella dolenzia passò senza lasciare tracce. Purosangue lunatici. Un giorno ti deludono, il mattino dopo ti esaltano. A quale dei due animali, quello osservato ieri o quello che ha galoppato oggi, si doveva dar credito?
L’indomani il ‘Vostro Onore’, come lo aveva ribattezzato con una punta di cattiveria un vecchio amico anarchico, era come un quasi affogato che riemerge miracolosamente: dal pallido esibito nelle ultime settimane il suo volto riprese colore, le guance arrossate per l’emozione ancora viva, il cuore si rianimò, il malumore lasciò il posto al suo contrario. Per incoraggiare l’ambiente di scuderia egli consegnò al Dresda tre sacchi di mangime per cavalli cui attribuiva effetti alimentari straordinari ed una intera pressa del miglior fieno in vendita sul mercato, a base di trifoglio alessandrino. Nella Ford familiare del giudice tale prezioso carico era stato sapientemente occultato agli occhi della ignara consorte, così come avrebbe agito un contrabbandiere con l’intento di farla franca alla Finanza e alla consorte: un piccolo sotterfugio affinché nuvole minacciose non venissero ad incrinare la pax familiare.
Per la serie ‘il trasformista Fregoli non era che un dilettante al confronto’ nel successivo galoppo sulla pista di sabbia il puledro tornò ad indossare i panni del somaro. Che la causa stesse nell’essersi troppo rimpinzato del trifoglio o nel suo mutevole carattere infingardo era difficile da stabilire su momento. Rimase il fatto a turbare nuovamente gli animi e le coscienze.
Come tutti quelli che esercitano il suo gravoso incarico professionale il signor giudice era una testa dura. Volendo vederci chiaro convocò il veterinario dopo aver osservato che il cavallo sudava tutto e zoppicava dal posteriore sinistro quando veniva fatto trottare. L’esame radiografico confortò la diagnosi di trauma all’altezza del tarso, ma permise di evidenziare un aspetto tenuto nascosto dallo scorretto ‘frullone’ al momento della vendita: a poca distanza dall’area del danno recente l’osso recava il segno indiscutibile di una vecchia frattura. Solo che lo avesse voluto il signor Ottaviano avrebbe potuto far invalidare il contratto di vendita e chiedere un risarcimento per i danni subiti.
Parimenti i suoi compagni di cordata, ritenendosi non a torto raggirati, gli comunicarono che si ritenevano liberi da ogni vincolo economico, non volendo più sentir parlare del cavallo; affidavano all’azionista di maggioranza la decisione sul destino dell’animale purché non se ne parlasse più. Non avrebbero sborsato neppure un altro soldo.
Da buon cristiano il dottor Ottaviano non se la sentiva di buttare alle ortiche la dedizione di tanti mesi né di metter in mezzo il disgraziato allevatore: accettò il consiglio del veterinario per un ultimo intervento curativo consistente nella cosiddetta ‘ghiacciatura’ dell’arto incidentato, al fine di rimettere Mister Duche nella condizione di affrontare una corsa. Detto e fatto. A dispetto dell’aspetto mansueto Pinelli era uomo di principi, ostinato, poco disposto ad arrendersi.
Quando una rapporto professionale non dà risultati accettabili occorre prendere esempio dai presidenti delle squadre di calcio: innanzitutto si cambia l’allenatore. Così fece anche il proprietario di Mister Duche, il quale affidò il cavallo alle cure del ‘tigna’, un sanguigno pisano con buoni trascorsi da gentleman prima e allenatore-proprietario poi. Così facendo liberava il Dresda da un cruccio, che l’uomo aveva perso oramai ogni fiducia sulle capacità del figlio di Icecapade. Insomma l’uomo e l’animale non si erano capiti.
A Pisa dopo un salutare periodo di riposo necessario al completo recupero dell’arto Mister Duche riacquistò il brio giovanile allenandosi con profitto sulle piste della tenuta di San Rossore. L’ambiente doveva piacergli, l’aria salsa e le essenze liberate dai pini marittimi lo rigeneravano. Non accusava la stanchezza e dopo i lavori più impegnativi manteneva una calma sovrana respirando a testa bassa. Buon segno. Insomma un altro cavallo rispetto al passato fiorentino, che non si faceva staccare, capace di andare a riprendere in velocità il bilancino. Va da sé che la carta inglese, il talismano, aveva accompagnato l’animale al nuovo domicilio assieme agli altri documenti di rito.
Avvenne così che un gradevole mattino di settembre, al termine di un lavoro svelto sulla ‘dirittura dei cotoni’, il preparatore disse al signor Ottaviano: “Siamo pronti per gareggiare.” I due passarono in rassegna il tipo di corsa più confacente e su quale ippodromo toscano avrebbe dovuto avvenire il debutto. Soppesarono i pro e i contro di quelle scelte. Per un proprietario che si affaccia alle corse questo è un momento di grande emozione. Le speranze si accavallano, il timore di qualche contrattempo dell’ultimo momento si affaccia fastidioso a turbare la festa.
L’inizio della carriera pubblica di Mister Duche avvenne in un giorno feriale, nella bomboniera livornese dell’Ardenza allietata per l’occasione da uno splendido sole e dalla presenza di molti appassionati. Pinelli ci sperava, in un risultato positivo, tanto da convincere la moglie ad accompagnarlo. Trepidavano entrambi quando le gabbie di partenza si aprirono liberando i quindici concorrenti. Non ci fu gloria, anzi. Il cavallo smentì tutte le belle parole pronunciate dall’allenatore e fece precipitare nel baratro i sogni del proprietario, la cui pazienza era stata messa a dura prova per troppo tempo. Non fu soltanto una prova incolore come volle sostenere il commento del tigna: “Un debutto non fà gran testo. E’ stato preso in velocità: la prossima volta correrà meglio.”
Chiunque avesse aperto gli occhi avrebbe capito che la natura aveva fornito alla prestanza fisica del tronco equino quattro zampe inadeguate, troppo leggere per sopportare con profitto tutto quel peso ad una velocità competitiva. Insomma Mister Duche era un bel cavallo da figurare in una parata, non un atleta corridore. Le due gare successive, volute dal trainer, confermarono la sentenza di condanna definitiva: sia pure in categoria infima il figlio di Maura Jung finì alla retroguardia entrambe le volte.
Illudersi ancora sulle sue capacità agonistiche sarebbe stato per il signor Ottaviano come credere nelle chimere. Non rimaneva altro da fare che sbarazzarsi dell’animale. Il che avvenne vendendolo, per quattro soldi, ad un maneggio frequentato da villeggianti, destino inevitabile per un purosangue meschino.
Del modulo di iscrizione alle corse del Royal Meeting, che era giunto dal cielo come un fausto presagio e fino ad allora aveva accompagnato le sorti di Mister Duche proteggendolo oltre i meriti, si persero le tracce. Il vento dispettoso se ne era servito per dispensare illusioni, il disinteresse lo condusse chissà dove, nell’oblio del tempo. Non basta il vento a favore se non si hanno le vele giuste.
Sariska
Un amico mi ha mandato una foto di un bagno dell'ippodromo di Varese con sopra un cartello che invitava a non gettare le ricevute delle scommesse nel water in quanto non biodegradabili...
Di conseguenza ho scritto il breve racconto che metto di seguito.
Vittorio ha visto un cartello messo nei bagni di un ippodromo con su scritto di non gettare i biglietti delle scommesse nel water, chè intasano le condutture. L’ha fotografato e me l’ha spedito con uno whatsapp.
Il motivo prevalente per cui Vittorio va alle corse non l’ho mai saputo per certo. Gli piacciono i cavalli, questo è sicuro. Poi adora la gente dei cavalli, moltissimo. E ama anche il gioco, l’azzardo. Però non l’ho mai visto sacramentare per una sconfitta, né di un suo cavallo né tantomeno di un ronzino su cui aveva scommesso. Devo credere che quel cartello non sia rivolto ai tipi come lui, giocatori che sanno perdere con grazia, una qualità che ho imparato ad amare. No, non me lo vedo che getta il biglietto perdente nella tazza del cesso.
Mi viene in mente Luigi, un altro che non lo farebbe mai. Se facessero il Campionato del Mondo della Sportività Luigi sarebbe uno dei favoriti.
Una volta andò verso nord per l’estate, seguendo i meetings internazionali del galoppo. A Deauville perse, scherzandoci sopra con gli amici: tanto, poi andremo a Goodwood - rideva - e là vi farò vedere, ho un vincente sicuro nel Gruppo Uno! Sbarcato in Inghilterra, gli fecero vuotare il sacco: il cavallo di cui menava vanto era una femmina partente nelle Nassau Stakes, nientemeno che la fenomenale Sariska.
Luigi, come ogni giocatore (e fanfarone) che si rispetti, ostentava certezze e già quasi esultava prima della partenza della corsa.
Beh, Sariska non usci dalle gabbie. Non pensate a nulla di poco regolare. Semplicemente, quando le gabbie scattarono, la cavalla restò immobile, come paralizzata.
Non chiedetemi quanto spesso accade nelle corse importanti, perché semplicemente non è successo mai. Mai neanche un’altra volta.
Ora molti di noi, al posto di Luigi, avrebbero imprecato, maledetto la cavalla e la sorte. Lui, no: alzò freddamante il telefonino per immortalare l’immagine di quell’attimo, la sfiga suprema.
Quando al suo ritorno me lo raccontò, non riusciva a non riderci sopra. Così a Natale gli regalai una stampa di Sariska, trovata su un sito web inglese: ne fu entusiasta e da allora l’immagine troneggia nel suo salotto.
Che classe. Bisogna saper perdere, diceva la canzone.
Una volta vidi Luigi che alle corse teneva banco in un capannello di scommettitori. Spiegava che, per godere delle corse, ciò che non deve proprio succedere è di prendere una puntata. Ti tocca passare al ritiro dal bookmaker o al totalizzatore: restituisci il biglietto, ti danno in cambio delle banconote, è finita lì.
Se invece perdi, e tanto meglio se in modo rocambolesco, viene il divertimento vero: quello di discutere con gli amici raccontando le proprie disavventure, tirando fuori i luoghi comuni sui cavalli che fanno bugiardo anche il più sincero degli appassionati, facendosi prendere in giro e ingaggiando una gara di ironia con gli altri scommettitori, provocandoli, rilanciando in battute fino al momento della corsa successiva, o almeno finché i cavalli riappariranno al tondino a catturare l’attenzione di tutti.
In caso di Campionato del Mondo della sportività, però, Luigi potrebbe pure essere battuto.
Lo dico perché mi sono ricordato di un tale che conobbi più di 40 anni fa. Ero in Irlanda col mio papà, e fummo invitati a visitare un allevamento dove c’era uno stallone allora popolare di cui non ricordo il nome, ma l’immagine l’ho ancora in testa: era un sauro tutto rotondo nelle forme, piccolo, sicuramente un velocista.
L’allevamento era proprietà di un industriale americano, magnate delle cerniere lampo. Costui parlava di cavalli e affari, non la finiva più, e a me scappava la pipì. Per cui mi defilai e chiesi a un ragazzo che passava dove avrei potuto trovare un bagno: quello rispose che ce ne era uno nelle scuderie, ma suggerì di preferire il bagno della casa padronale, la toilette - disse - più costosa del mondo.
Mentre mi avviavo, pensai che fosse pazzo. Invece aveva ragione: il bagno lo aveva ‘arredato’ lui, incollando sulla carta da parati (uno per uno) tutti i biglietti delle scommesse perse sui cavalli nella sua vita, che aveva conservato. Non li aveva mica gettati nello scarico, lui.
Il ragazzo era il figlio dell’industriale americano ma viveva in Inghilterra, dove faceva il banditore d’asta a Sotheby’s. Di conseguenza andava alle corse inglesi, dove i biglietti sono coloratissimi, spesso sono cartoncini con sopra il nome del bookmaker che li ha emessi.
Il bagno, credetemi, era spettacolare. E non ci possono essere dubbi che l’affermazione fosse sacrosanta, come immaginare una tappezzeria pagata più a caro prezzo di quella là?
Le pareti non erano manco completate, c’era posto per tantissime scommesse ancora da perdere e da godere, nel futuro prossimo e in quello remoto.
Tornai da papà e gli suggerii di andare subito a fare pipì anche lui.
Il tipo notò la cosa, e si capiva bene che ne era contento, e orgoglioso. Se è ancora in giro, quel Campionato del Mondo potrebbe vincerlo lui. Perciò alla fine questo breve racconto torna dov’era cominciato, in un bagno.
Quello che volevo dire è: non si tratta mica di un problema idraulico, il cartello che ha visto Vittorio parla del voler bene alle corse, quando si vince e ancora di più quando si perde.
Enable sovrana
Con l’inizio dell’autunno il racing europeo parla al femminile. Il fatto è che sempre più di frequente negli ultimi anni l’Arc de Triomphe si colora di rosa. Quali che ne siano le ragioni, biologiche, morfologiche e tecniche o di altra natura, non saprei dire con convinzione. Molti fattori convergono a questo fine. Le puledre sono si reduci da un ciclo classico loro riservato meno stressante di quello cui sottostanno i coetanei maschi, ma non è il caso presente. Quest’anno Enable non ha saltato nessuna delle quattro canoniche Oaxs britanniche (Cheshire, Epsom, Irish, Yorkshire) vincendole tutte per distacchi vistosi. Poi, tanto per gradire, ha sconfitto alla grande gli anziani nelle King George VI and Queen Elizabeth sul palcoscenico prestigioso di Ascot. Ha significato essere rimasta sotto pressione, al pezzo si direbbe, dall’inizio della stagione agonistica. Ciò non le ha impedito di esibirsi in una promenade di assoluto rilevo, un pezzo di rara bravura, nella prova che incorona il più forte esponente della forma europea sulla distanza classica. Il Prix de l’Arc de Triomphe l’ha incoronata regina assoluta al termine di una sequenza vittoriosa che ha dello straordinario.
Nata (12 febbraio 2014) per correre, con la potenza del padre Nathaniel e l’eleganza morfologica della femmina. L’accelerazione con la quale all’imbocco della retta di arrivo di Chantilly la puledra affidata da John Gosden alle mani di Lanfranco Dettori si è prepotentemente allontanata dalla compagnia mi ha ricordato lo stacco altrettanto imperioso nella sua facilità del Ribot nell’Arc 1956. Il divario incolmabile, di un’intera categoria, che la campionessa ha frapposto tra sé e gli avversari nel momento in cui si richiedeva ai cavalli il massimo sforzo, mi ha sorpreso per la facilità dell’esecuzione. Uno stacco imparabile. E Dettori ha dovuto fare ricorso all’impiego del frustino nel furlong finale per evitare che Enable, trovandosi in perfetta solitudine, ritenesse di aver esaurito il compito anzitempo. O forse avvertendo il messaggio trasmesso alle ginocchia dal battito cardiaco accelerato della sua cavalcatura. L’impresa di Enable è stata una gioia per gli occhi di noi tutti appassionati.
L’ippica, una delle espressioni con le quali da sempre si è manifestata la rivalità, entra nella modernità nella seconda metà del ‘700 inserendosi nel rigore sperimentale che caratterizza quel momento storico nel quale le teorie evoluzionistiche aprivano all’uomo la strada alle scienze genetiche. In sintesi l’allevamento dei purosangue acquista di diritto una caratterizzazione sperimentale oggettiva che ha nello Stud Book la sua raccolta dati e guida. Enable ne è l’ultima, in ordine di tempo, straordinaria creazione di cui siamo riconoscenti a Khalid Abdullah.
SOMMARIO
Eohippus
Il proprietario di cavalli purosangue secondo Federico Tesio
Controcorrente.
La libertà del fantino
La puledra e la Fattoria
L’ardenza
Nota storica
Ilmuseo del cavallo
Frustino si, frustino no
Le differenze di peso peretà e per sesso. Non sono oggi eccessive?
Controcorrente due
Braque, un campione mai dimenticato
Arrugate a Dubai
Un Jack Obbs ritrovato
La misura è colma: restituiteci il silenzio
Frankel al Banstead Manor Stud di Newmarket
Frankel e il dubbio
L’ultimo Lanfranco Dettori
L’allevamento
Arrogate 2
A ciascuno la stessa porzione, ma più siamo più le parti sono piccole (mediocrità) meno siamo e più grande la fetta che spettaa a ciascuno (genialità)
Non ci rimane che il Palio di Siena
Tenerani, tanto fondo e alta classe
Marguerite Vernaut, una star del turf
Yeats
Un modulo dispettoso
Sariska
Enable sovrana
Presentazione
Fin dagli albori delle civiltà umane i colori sono stati un elemento distintivo per la varietà delle loro combinazioni e adattabilità alle forme, così da divenire il più comune elemento rappresentativo di singoli personaggi e di gruppi. Oso dire che nell’ippica la cromaticità della casacca indossata dal fantino vale tanto quanto il cavallo. A conclusione dell’anno 2016, la SIRE ha voluto mettere a disposizione dei suoi Soci un foulard con le immagini delle casacche che fecero la storia e la gloria sportiva degli allevamenti di purosangue in Italia.
E’ stato anche quello di SIRE uno stimolo a rimarcare la necessità, anzi l’urgenza, di proporre altre sfaccettature culturali dello sport ippico nel tentativo di arrestarne il declino. Da qui la nostra iniziativa, affatto ambiziosa ma convinta.