Il Corrierino degli Eoippici
Considerazioni in libertà sull’ippica dei purosangue
Periodico a cura del Clubino degli Eoippici
Numero 2, 2018
REDAZIONE
Prof. Luigi Brighigna
Dr. Paolo Crespi
Prof. Alessio Papini
Una voce in difesa dell’ippica dei purosangue, aperta a contributi esterni, gratuiti, purché accettati a insindacabile giudizio della redazione.
Alle corse
Qualcuno è confidente, professionale direi, altri danno segno di nervosismo; qualcuno si irrigidisce con ostinazione e si difende prima di cedere alle pressioni degli uomini addetti. La riottosità, ritardando i tempi di attesa nello stallo di chi è entrato in precedenza, ne danneggia la prontezza di uscita e per questo potrà essere sanzionata. Altri vengono ingannati dal cappuccio. Dico dei purosangue prima della partenza.
(C’è chi mostra fiducia, chi ubbidisce come un soldato e anche chi pare nervoso, e probabilmente lo è. Non dovremmo stupircene, in fondo sono cavalli purosangue prima della partenza.)
Al segnale dello starter le gabbie si aprono. I concorrenti si slanciano sul percorso rispondendo secondo la propria reattività del momento, vuoi rapidi nell’uscire vuoi attardati per essere sorpresi in controtempo. Chi si intraversa può recare danno a se stesso e al vicino di posizione. Il controstarter abbassa la bandiera e si ritrae oltre lo steccato. I fantini dai riflessi più pronti, ce ne sono alcuni particolarmente versati, assecondano il cavallo nel prendere la posizione più favorevole, consona alle sue attitudini, al tipo di corsa e agli ordini ricevuti.
I front-runner hanno sparato le proprie cartucce fin dall’inizio imponendo un ritmo sostenuto, ma si espongono ai rischi di una condotta che potrebbe vederli più avanti in difetto di energie. Altri si collocano dove possono nelle posizioni di centro gruppo compatibilmente con le altrui iniziative. I finisseur e i più dotati di stamina attendono nella retroguardia; per conservare la punta di velocità alle fasi finali i primi o essendo più lenti a ‘mettersi sulle gambe’ i secondi. Questi ultimi tenderanno a preparare la risalita in progressione dopo la curva finale. Ad un certo punto si entra in una fase statica, e ogni concorrente, volente o nolente, deve accettare di correre compatibilmente per come la corsa si è messa, le posizioni si assestano e la striscia colorata delle casacche si consolida agli occhi dello spettatore. Ora diviene essenziale, decisiva al fine del risultato all’arrivo, l’iniziativa, la capacità di leggere la corsa del fantino, la sua sensibilità nel valutare le forze dell’animale che ha sotto di sé. L’uomo è l’elemento più che mai decisivo. Un fantino viene giudicato nel novero di quelli veramente bravi se, quando monta il cavallo migliore, vince. Il che non sempre può realizzarsi perché i fattori che concorrono al successo sono vari e aleatori.
Il momento della verità si affronta in retta d’arrivo. Quelli di testa operano l’allungo e tra loro può esserci il campione eccelso: in tal caso non ce ne sarà per nessun altro. Si tratta di una corsa internazionale, di gruppo uno, di quelle che assicurano all’animale un posto nella storia. Il binocolo non serve più, l’emozione dell’appassionato si stempera nel compiacimento. Il tifoso chiude gli occhi e ascolta l’armonia ritmata dagli zoccoli sul terreno davanti al suo punto di osservazione. E’ la musica attesa da un pugno di secondi, è ambrosia. Ma è un fatto raro, altrimenti che crack formidabile sarebbe il vincitore. Tanto per citare due imbattibili, i Ribot, i Frankel non nascono tutti gli anni. Poi la promenade eccitante e grintosa caracollando davanti alle tribune plaudenti e il rientro al recinto del dissellaggio tra la calca festante degli appassionati che preme e commenta l’impresa.
Generalmente, nelle corse di rango inferiore, quelle che definiremo di routine, la lotta è incerta. I concorrenti si sono schierati a ventaglio: chi risalendo per corsie esterne con alterna fortuna - si perde terreno percorrendo la curva al largo ma la posizione per l’attacco finale risulterà più favorevole - chi in seconda linea nell’attesa di un varco, magari lungo un pertugio apertosi allo steccato per il calo repentino del battistrada. Qualcuno ha speso troppo e si arrende. La corsia di terreno più favorevole, quella meno lavorata in precedenza, può rappresentare un fattore decisivo.
Il finale appartiene ai più forti. Si lotta fianco a fianco, si devia dalla linea, si mettono in campo le malizie del mestiere, i frustini mulinano, le braccia sostengono il battito dei cuori animali e le froge si arrossano nello sforzo. Finalmente è l’arrivo: quel bastone di legno che decide, sono parole di Tesio, il destino del purosangue. E’ il fatto corsa: il suo immutato fascino da secoli, non compreso e invidiato da coloro che sono poveri nello spirito e modesti di intelligenza.
Il Federico Caprilli
Per alcune stagioni ho frequentato l’ippodromo Federico Caprilli all’Ardenza di Livorno come membro delle terne Commissariali nominate per le riunioni al galoppo dal Jockey Club Italiano. Non furono anni facili per la giustizia ippica di prima istanza in un periodo durante il quale le contestazioni erano pane quotidiano in ogni settore della società civile, dall’università come nella politica e appunto gli sport: un cambiamento gestito nel modo più sciagurato era in atto e ahimè vincente. Ne patiamo oggi le conseguenze.
Le riunioni del ciclo estivo in notturna erano vivacizzate dalle raffinate cene - non ho memoria sia mai mancato il baccalà alla livornese mantecato con raffinata perizia - che il presidente della Labronica dottor Cave-Bondi ci offriva prima dell’inizio delle corse. Al proposito ci tengo a precisare un dato non secondario per la correttezza dei giudizi: sono rigidamente astemio. Durante le riunioni invernali il tramontanino si occupava di calmare i bollenti spiriti dei delusi riportandoli agli immancabili coloriti commenti dialettali marinareschi e nulla più. Era invece compito dei ‘ponci’ bollenti riscaldare gli scommettitori fortunati e consolare i sempre disposti ad accodarsi nel festeggiare.
Da allora sono trascorsi lustri durante i quali i compiti universitari, onerosi e non sempre gratificanti, mi hanno assorbito a tempo pieno. L’ippica in secondo piano e poi più. C’è voluto Morgiano (Denon e Sopran Strike da Smart Strike) un brillante baietto di cinque anni allevato in comproprietà con alcuni amici, perché ormai alla soglia di una ben meritata pensione varcassi nuovamente l’ingresso dell’ippodromo livornese per seguirne il comportamento in una corsa per velocisti, il che vuol dire partenza all’altezza delle scuderie e percorrere mezzo giro di pista fino al traguardo. Esiguo il numero dei partenti: sei in tutto e betting incerto. Sgabbiata in retroguardia, gagliarda risalita lungo la curva, stacco prepotente a centro pista in dirittura per conquistare un successo mai messo in discussione: questo il Morgiano nei suoi panni migliori. Ce ne ha date di soddisfazioni. Non fu la prima né sarà l’ultima, perché il cavallo nell’ambito della sua categoria aveva una certa classe. Nel recinto del dissellaggio dopo la corsa l’animale è asciutto e brioso, non rinunciando ad un rametto della siepe di alloro che deve aver solleticato il suo appetito. Una stretta di mano a Saro, trainer tanto schivo quanto abile nella scelta delle opportunità. Nell’occasione mi sono accaparrato, usando un po’ di sottile dialettica a sostegno degli indubbi meriti personali, una coppa che oggi fa la sua bella figura sopra un mobile del salotto di casa.
Era quello uno degli ultimi convegni della riunione d’inverno e tirava un vento bizzo alquanto fastidioso, ma ne ho un gradito ricordo per un altro spettacolo, altrettanto gratificante rispetto a quello ippico, che mi si presentò all’uscita dall’impianto sportivo: il fantasmagorico tramonto del sole sul mare antistante poche diecine di metri. Una sfera di fuoco che scompariva dietro l’orizzonte del mare appena increspato rendendolo simile ad un tappeto blu costellato di diamanti. E il cielo terso sfumato sul colore magenta tenue da rimanere incantati come in un sogno. Anche questo fu un regalo ardenzino di quella felice occasione.
Oggi al Caprilli non si corre più. L’ippodromo labronico, che nei momenti di splendore vide la frequentazione assidua di titolati e intellettuali come il D’Annunzio, la Duse, Guido da Verona, il Ricasoli e altri, è chiuso, abbandonato alle erbe infestanti e al degrado. Perché in questo Paese, repubblicano per approssimazione e falsamente democratico, lo sport dei nobili - che tale mai è stato per la presa fin dal suo sorgere presso tutte le classi sociali - viene visto come il fumo negli occhi da una politica fallimentare e gli ippici mostrano codardia nel non reagire come imporrebbero l’amor proprio e l’interesse.
Memoriali di troppo
Il calendario delle maggiori corse ippiche dei purosangue, quelle che contano ai fini della selezione avendo di mira il miglioramento della razza, ha seguito fin dal suo inizio regolamentato nell’Inghilterra vittoriana l’andamento stagionale, trattandosi di accompagnare le tappe di crescita dell’animale. A questa sequenza, si sono adeguati le altre Nazioni, pur tenendo conto della loro collocazione geografica e dunque delle differenze climatiche rispetto alla fonte originale. Per chiarezza le Nazioni collocate più a sud anticipano le date, quelle del nord seguono. Non solo, anche la titolarietà delle corse di selezione ha per anni ricalcato quella inglese tradizionale: Ghinee, Derby, St. Leger i nomi delle classiche per tutti i Paesi, così da uniformarle anche in funzione comparativa. Fatta eccezione della Francia perché la grandeur gallica è un difetto duro a morire contribuendo a rendere supponenti gli eredi di Carlo Magno prima e Napoleone poi.
In maniera analoga le più prestigiose prove ippiche aperte anche ai cavalli di quattro anni ed oltre per attestare i confronti tra generazioni differenti, quali le Eclipse, le King George VI end Queen Elizabeth, le Champion di York, la Gold Cup di Ascot, l’Arc de Triomphe francese, per Italia il Gran Premio di Milano fino agli anni ‘90, e le altre analoghe hanno conservato la dizione originaria resistendo in nome della tradizione, che è legame necessario e garante, agli assalti di quanti, per leggerezza, non ne comprendevano l’efficacia morale.
Quanto detto fin ora è cosa ben nota a tutti gli appassionati, tanto che avrei evitato di farne cenno, non fosse che mi da modo di affrontare quella fastidiosa e decisamente inopportuna iniziativa rappresentata dalla inflazione di dediche memoriali abbinate a corse di sicura e consolidata storia e prestigio, le quali in conseguenza ne risultano come retrocesse di rango e valore sportivo. Un battesimo di categoria secondaria dal sapore barocco. Chiarisco il mio pensiero ricorrendo ad un esempio: il premio Lampugnano per cavalli di due anni che si corre a San Siro è quasi sempre occasione per il debutto di buoni soggetti che saranno poi protagonisti di primaria importanza. Mai lo abbinerei ad un nominativo da celebrare. Il peso della storia conta molto: evitiamo dunque per le corse stabilmente entrate nel ciclo tradizionale le ricompense postume, superflue e non sempre opportune.
Anche questo è un segno della pochezza di idee attuale e della disaffezione da parte degli sportivi. E’ come dire spendiamo gli ultimi spiccioli.
Ben diverso il significato della presenza, ineluttabile, dello sponsor, inserito a componente aggettivale, che consente oggigiorno alle grandi prove, quelle che attirano un pubblico importante, di distribuire somme vistose altrimenti non raggiungibili.
Mac Mahon
Mac Mahon, (Ramonti e Miss Sultin da Celtic Swing) il vincitore del Derby italiano di galoppo 2017, ci era sembrato un soggetto di buon livello, con le potenzialità giuste per non sfigurare in un contesto internazionale di gruppo.
Aveva dominato la corsa romana nelle capaci mani di Dario Vargiu. Ci siamo dovuti ricredere.
Al primo impegno fuori dei confini nazionali la realtà è apparsa altra e ci obbliga a prendere consapevolezza che l’allevamento nostrano di purosangue non è interessato alla produzione di animali classici professionali quanto piuttosto a soggetti di mediocre brillantezza e del tutto carenti di stamina. Mi riferisco ai battuti a Capannelle dal buon puledro allevato da Massimiliano Porcelli. Ciò è il frutto di politiche allevatorie errate, di competenze mediocri, delle diffuse passioni sportive fasulle che hanno caratterizzato gli ultimi decenni: conseguenza inevitabile da quando alcuni sciagurati farlocchi indicarono la via futura dell’ippica mondiale nella riduzione della distanza classica al doppio chilometro, trovando subito l’entusiasmo dei mediocri sempre pronti ad accodarsi: in Italia qualsiasi ‘bischerata’ trova compiacenti venalmente interessati. L’aver ottenuto la distanza né carne né pesce del nostro Derby fu allora spacciato da costoro come un successo, un traguardo rivolto a mantenere, si scrisse, la qualifica di Gruppo uno. Era un seme venefico di cui sopportiamo oggi tutte le conseguenze negative.
Costoro, i modernisti, meritano l’ostracismo per la loro incompetenza. Oggi la classicità è rivalutata, sollecitata e supportata a livello di organismi ippici internazionali, ma non da noi. E sappiamo perché.
Rivendichiamo con decisione un ritorno ai fondamentali: inderogabilmente il Derby Italiano dev’essere ripristinato nel percorso e nella distanza originari, altrimenti perde la sua ragion d’essere il fattore di giudizio e confronto tra generazioni. Sarà solo l’inizio della svolta. E se qualcuno non lo ha ancora capito che si dedichi al palio dei ciuchi.
Mac Mahon. 2
Il pernio attorno a cui ruota l’attività ippica del vecchio continente è l’Inghilterra, anche se con sempre maggior disponibilità economica si collegano come propaggini ad oriente le attività promozionali e tecniche dei Paesi (Dubai, Qatar e Arabia Saudita) del golfo arabico.
A oriente quindi si può guardare con crescente interesse alla presenza di nuove occasioni sportive e alla crescita di proficui mercati. E’ quanto è stato fatto per iniziativa del team Botti (per la proprietà attuale giapponese) di Mac Mahon, vincitore dell’Emanuele Filiberto e del Derby italiano 2017. Il figlio di Ramonti, allevato da quel Massimiliano Porcelli che, non mi stanco di riconoscerlo, è allevatore preparato e dagli eccellenti risultati, è stato dirottato al Qatar Derby nuovamente affidato per l’occasione alle mani del bravissimo Dario Vargiu con il quale ha la migliore confidenza. Il feeling tra animale e fantino è fattore tutt’alto che secondario per i risultati. Si è trattato di una trasferta preparata con saggio anticipo che ha consentito all’animale di assorbire l’ambientazione necessaria e non quella frettolosa che aveva caratterizzato la precedente esperienza in terra francese nel Grand Prix de Paris, troppo deludente per essere vera. La conseguenza in pista è stata un successo pieno rispondente ai favori del pronostico basato sul rating più elevato tra i 16 partecipanti. Gara condotta a ritmo sostenuto. Partito non brillante Mac Mahon ha dovuto adattarsi al centro del gruppo in una scomoda posizione lungo lo steccato interno, ma affrontando l’ampia curva finale Vargiu è stato abile a sfruttare i varchi apertisi per le mosse degli attaccanti che lo precedevano e trovarsi libero sul fianco sinistro. La manovra ha proiettato Mac Mahon in retta di arrivo nella favorevole posizione di attacco seguendo un corridoio a centro pista. Nei 200 finali lo stacco a fruste alzate per transitare sul traguardo con il rassicurante vantaggio di due lunghezze e un quarto. Una prestazione non facile, ma conclusa nel migliore dei modi. Nel sempre più vasto mondo dell’ippica quella italiana trova l’occasione per mostrarsi vincente facendo ricorso all’umiltà.
In quel di Pierantonio, la succursale umbra seguita da Porcelli per la SAB (Società Agricola di Besnate) ai festeggiamenti del capodanno 2018 si sono aggiunti quelli per un successo di risonanza internazionale.
Ramonti
Nelle stazioni di monta, a fine Marzo, ci sono parecchi foals neonati ed è bello girare per le scuderie: si nota la differenza tra chi ha poche ore di vita e chi già un mese di età. Si riconoscono le mamme; poco fa le seguivamo in pista, qualcuna ha fatto corse importanti, qualcuna ha un pedigree intrigante.
Avevo un amico che amava, in quel periodo, fare una capatina a Besnate; una volta venne di mercoledì al tramonto: notai l’ora, pensai uscisse dalle corse infrasettimanali a San Siro e dissi: “Corse di brocchi oggi”. “Mica tanto, rispose lui: oggi ho visto debuttare un Campione. Uno che tra un mese, nel Parioli, sarà imbattibile.” Era la prima volta che sentivo parlare di Ramonti.
Non aveva corso a 2 anni per un’irregolarità di registrazione prodottasi quando, a pochi mesi d’età, era stato importato della Francia; non si riusciva a ottenere la stampa del suo passaporto, senza cui non si può gareggiare. Ci volle del bello e del buono per averlo e il documento giunse solo quando la stagione delle corse era terminata. Proprietario e allenatori (il sig. Balzarini e i fratelli Botti) sapevano che per Ramonti era impossibile scendere in pista; sapevano anche che andava forte.
Il cavallo era stato domato e tenuto a lungo nel centro di allenamento privato di Brescia, e mandato a San Siro solo con l’inverno alle porte. Il primo giorno a San Siro Ramonti si ritrovò all’inizio della pista con gli altri puledri che avrebbe dovuto seguire nel canter di mantenimento. Ramonti vide davanti a sé un coetaneo partito alcuni secondi prima e lo inseguì, a dispetto dei comandi del fantino che cercava di trattenerlo. Lo raggiunse in poche centinaia di metri. Quello davanti era Montalegre, il secondo del Campobello e la speranza di scuderia per il Derby dell’anno successivo.
Quando, parlando con un vecchio trainer, spiegai che non avrei mai potuto fare il suo mestiere perché faticavo a valutare i galoppi di allenamento, lui disse: “Capire i cavali è difficile quando sono brocchi; ma se uno è un Campione è facile accorgersene. Stia tranquillo: quella cosa lì la capirebbe persino lei!”
Ramonti si fece male nel Derby, a un tendine. Tutti sapevano che non avrebbe dovuto correre quella corsa, per limiti di attitudine alla distanza. Tutti sapevano anche che, potendo scegliere, non avrebbero rinunciato: impossibile farlo, vista la differenza di classe che passava tra lui e i suoi coetanei.
Ci ho ripensato più volte, perché il Derby è il Derby e nel 2005 fu drammatico. Mi sono convinto che il fantino di Ramonti fece un piccolo capolavoro andando in testa e imponendo una falsissima andatura. Disturbò il cavallo il meno possibile e ridusse la corsa a una volata finale; anche così non bastò e perse, di pochissimo. E’ una faccenda che fatico a spiegarmi ma della quale sono certo. Se un cavallo non fa la distanza non la fa, punto e basta. Non conta neppure l’andatura a cui si corre la competizione, come invece conterebbe, moltissimo, in una corsa podistica. La stamina, i cavalli ce l’hanno dentro. Sono forniti con più o meno distanza nel loro cuore, e si tratta di capire quanta ne è contenuta in ciascun animale. Ma non si può cambiarne la natura.
Dopo l’infortunio Ramonti fu curato e rientrò dopo un anno, stravincendo. Era pur sempre un cavallo rappezzato, come si dice in scuderia, e l’allenatore ci andava con mano leggera. Così quando fu riportato in pista a distanza di 20 gg. non era certo al massimo della forma e fu battuto in una semplice Listed romana, non semplicissima, ché vi partecipavano tre vincitori di Gruppo Uno. Era il Primo Maggio, c’era un sole magnifico, mi ricordo di averla vista in tivù.
Sentenziai che anche Ramonti non era più un Campione, dopo l’infortunio. In fondo, succede sempre così. Ci speri, ma non tornano più gli stessi: è come se ci fosse un freno nella loro mente, dopo una tendinite. Non posso saperlo per certo, ma immagino che allora anche Alduino Botti avrà pensato così.
Che Ramonti fosse il suo cavallo del cuore l’ho sempre saputo. In questi anni, quando veniva a Besnate per vedere i cavalli dei suoi clienti o i puledri in vendita, avevo imparato a far finta di nulla finché, poco prima che salisse in auto per andarsene, la buttavo lì: “Non guarda il suo cavallo, oggi?”.
Si precipitava, come se fosse stato necessario che gli dessi il permesso. Ogni volta palpava il tendine, per sentire se era a posto. Io gli facevo notare che agli stalloni, semmai, si controllano i testicoli. Alduino diceva: “Si, ma lei non sa quanto sono stato dietro a questo tendine!”
Ramonti rivinse, andò a Hong Kong e perse, ma facendo un figurone: Sheikh Mohammed lo acquistò. Il seguito lo sanno tutti. Ramonti non era un cavallo rappezzato come gli altri, quelli che perdono il cuore, nossignore. L’anno dopo ... in Inghilterra ci sono 4 Gruppi Uno sul miglio per gli anziani. Nel primo, al rientro, Ramonti fu battuto in fotografia. Era a 33 contro 1, lo montava Dettori. Sceso di sella, Frankie disse ai giornalisti di sorprendersi solo che avesse perso. “Sconfitta del fantino, non del cavallo. Se vado via più deciso non perdo mai”. Difatti poi venne via deciso e gli altri Gruppi Uno inglesi Ramonti li vinse tutti e tre. Più tardi c’è stato Frankel che ha fatto filotto, ma fino ad allora nessuno, dico nessuno, ne aveva vinti più di due. Neppure Brigadier Gerard, e questa è la misura di che fuoriclasse fosse Ramonti.
Rammento ancora il commento del Timeform di fine anno, il Racehorses. Iniziava raccontando che Sheikh Mohammed compra veramente tanti cavalli: soprattutto puledri, ma pure molti cavalli da corsa affermati. E bisognava proprio dirlo, a volta il successo proviene dalla più improbabile delle fonti. Che, tradotto dall’understatement inglese, voleva dire: “Merda, ci ha battuto un cavallo italiano!”. Pensai così per la prima volta che avrei potuto approfittare della diffidenza anglosassone per gli italiani. Al direttore dell’impresa inglese dello Sceicco scrissi che avrebbe dovuto pensare all’Italia quando Ramonti avrebbe smesso di correre: noi non avevamo dubbi su di lui!
L’anno dopo Ramonti si infortunò di nuovo e corse solo una volta, male; un demerito del suo trainer. Scrivevo o telefonavo all’allevamento dello Sceicco ogni due mesi, credevo di averli quasi convinti a mandarmi Ramonti. Ma quando infine il direttore affrontò l’argomento con Sheikh Mohammed si sentì rispondere “ma come, mandiamo via il nostro miglior cavallo?” E la cosa finì lì.
Ramonti restava un sogno. Venne l’epoca delle aste delle fattrici e andai a Newmarket. Nell’allevamento dello Sceicco presentavano tutti i suoi stalloni, una ventina; offrivano un rinfresco ricchissimo, perché con gli arabi va così.
Certi amici irlandesi andarono a vedere gli stalloni. Il giorno dopo chiesi com’era. “I cavalli, cosa vuoi, sempre lo stesso: ma si mangia da dio. Ci torniamo anche oggi, non è che vieni anche tu?”
Così mi godetti show e pranzo. Ricordo una zuppa col curry, e ricordo che all’uscita un irlandese mi interrogò con aria supponente: “Allora, italiano, che stallone ti è piaciuto di più?” Io esitavo, perché a me era piaciuto Ramonti (per chi non lo conosce, è il cavallo più bello al mondo: potente quanto elegante, statuario, rilassatissimo), ma dicendolo mi sembrava di peccare di sciovinismo. Qua l’irlandese mi sorprese, perché capì al volo cosa mi passava in testa. Prima che gli rispondessi sorrise: “Certo, Ramonti è di un’altra categoria; e sai che ti dico, hai davvero ragione tu! Facciamo così, dimmi chi ti piace per secondo.”
Ramonti iniziò a coprire a Kildangan, la base dello Sceicco in Irlanda. Per pochi soldi: a un irlandese non puoi spiegare chi è Martino Alonso, però puoi sempre argomentare: Ramonti, un cavallo pazzesco, costa poco, così.
Allora l’allevamento era diretto dal giovane Mick Buckley, uno brillante, capace di empatia con chi gli stava attorno: una qualità, se poi devi vendere le monte! Io con Mick partivo avvantaggiato. Anni prima, quando era assistente, ero capitato da lui una domenica di primavera. Quel giorno una nostra cavalla partecipava ad una Classica in Italia e Mick si offrì di farmi vedere la corsa sulla tivù dell’ufficio, che captava ogni programma ippico del mondo. La cavalla vinse, e il mio ospite stappò lo Champagne: uno di classe, come ho detto.
Quando si sparse la voce che Ramonti ingravidava male, volli informarmi. Mick mi raccontò tutto. “Non so spiegare, lo hanno visitato tutti i veterinari del mondo. L’unica cosa che ho compreso è che un po’ di fattrici resteranno gravide, altre no. Non si riesce neanche a trovare una regola a cui attenersi.”
Gli ricordai che per me, come per ogni italiano, Ramonti era speciale. “Diglielo ai tuoi capi: sono sempre dove stavo prima e ci proverei volentieri.”
E’ così che Ramonti è tornato in Italia, a fare lo stallone.
E’ stato gratificante avere Ramonti a due passi dal mio ufficio. Mi piaceva che gli appassionati di passaggio a Besnate mi chiedessero di fare il giro, ovvero passeggiare per l’allevamento e vedere gli stalloni. Quando arrivavano da lui dicevano due parole diverse. Magari, si facevano fare una foto col cavallo.
Questa parte della storia ha a che fare con l’orgoglio e col senso di appartenenza. Sono sempre contrario all’orgoglio, ma stavolta no: va bene così.
Due d’anni dopo l’arrivo di Ramonti a Besnate Mick si suicidò. Nessuno ha mai saputo il motivo. Era sposato, aveva magnifici bambini. Era un uomo che sapeva ridere. Mi aveva chiamato un paio di volte per chiedermi del cavallo. Lui sapeva bene che Ramonti non è come gli altri. Me lo ricordo una volta alle aste di Settimo, con la sigaretta in bocca: “Ci hai capito qualcosa tu?”
No, non ci ho mai capito molto. Grosso modo, per avere un puledro da Ramonti devi mandargli due cavalle. Andrà come deve andare: questo solo ho capito. Comunque i figli di Ramonti sono buoni cavalli, prendono da lui. Mac Mahon ha vinto il Derby ed è stata una vendetta, anche se non l’ha notato nessuno.
Adesso Ramonti farà la monta in Polonia. Ho guardato su internet: un bell’allevamento, in ogni caso. Lo dirige una signora, Magdalena, che mi ha scritto per dovere d’ufficio. Però non mi telefona mai: si vede che deve ancora appassionarsi al cavallo, lei.
Ha vissuto due anni a Brescia; poi due anni a San Siro e due a Newmarket; un anno in Irlanda con Mick e ben sette anni a Besnate. Ma paradossalmente Ramonti mi è passato solo vicino: Ramonti è stato del Sciur Emilio Balzarini, poi di Alduino ed Endo Botti, poi dello Sceicco e di Frankie. Comunque, ogni tanto, essere d’attorno a un cavallo diverso fa bene alla passione.
Ramonti ha lasciato Besnate con un van di ridotte dimensioni. Quando era arrivato, invece, stava su un van enorme. Alla partenza mi sembrò un po’ depresso, tanto che gli controllai la febbre. Invece era solo Ramonti, sempre così tranquillo.
Tutte e due le volte il conto lo pagava lo sceicco, ma si capisce che nel frattempo il cavallo aveva perso in popolarità: sarà stata colpa mia?
Io e il caporazza dell’allevamento stavamo attorno a un altro cavallo. Vedendo il van parcheggiato nel cortile ci siamo detti andiamo a salutare Ramonti.
L’avevano già caricato, allora siamo saliti sul van e gli abbiamo dato una carezza. Prima o poi, credo, sentiremo ancora parlare di lui.
Come conservare onore e guadagnare rispetto
Una riunione di corse, modeste, nel pieno dell’inverno, di quelle programmate per distribuire sostentamento e qualche soddisfazione morale ai piccoli proprietari, alla scuderie secondarie.
Questi i parametri tecnici: dei 44 partenti, distribuiti in 6 corse, 27 provengono da allevamenti italiani. Ben 30 sono chiamati con nomi stranieri, solo 14 portano nome italiano.
A distanza di una settimana nello stesso ippodromo un convegno analogo, anch’esso in giorno feriale, schiera 55 partenti, dei quali 22 provenienti da allevamento estero. 35 portano nomi non italiani.
Una prima valutazione. Tutti questi nomi in una lingua che non è la nostra, preponderanti nel numero ed eterogenei nella provenienza, non ci trasmettono nulla d’altro come le etichette sopra una confezione del mercato.
Riconosco che dati tanto parziali non possono avere pretesa statistica, ma le mie considerazioni escludono l’esame di questo fattore. Piuttosto l’interesse è rivolto alla perdita di quell’impostazione sistematica, di quelle regole applicate nel passato che agevolavano il riconoscimento delle origini dei purosangue, dei loro ascendenti, degli allevamenti di provenienza, delle scelte culturali operate dagli allevatori proprietari, vuoi legate al territorio vuoi al vissuto familiare, al clan. Sono i segnali che suonano da tempo come un campanello d’allarme, solo apparentemente trascurabile, innocuo. Un tempo c’era tutto quello, una disciplina formale che, in una realtà ancora senza il supporto e l’assillo del computer, costituiva e sosteneva efficacemente l’omogeneità di un settore garantendogli vigore, prestigio e fortune. Non è nostalgia del passato - in quanto tale sarebbe anacronistico - affermo la necessità di un nuovo ordine coerente ad un futuro che non sia coloniale.
Oggi siamo alla parcellizzazione, all’improvvisazione, all’assenza di ragioni effettive, alla dissoluzione dei legami transitati al vaglio del vissuto. La mediocrità non paga, né possiede la forza per darsi un domani. I colori delle giubbe non sono più bandiere, ma folgorazioni di un momento. Ciò procura non poca amarezza.
Il fattore nomenclatura contribuì assai alla fama di Federico Tesio come allevatore. Cito il Varola: ‘una delle ragioni principali per cui egli riuscì a catturare l’immaginazione di generazioni di frequentatori degli ippodromi fu proprio il fatto che chiamava tutti i suoi cavalli, senza eccezioni, con nomi di artisti delle cosiddette arti figurative, soprattutto pittori, scultori, architetti ……..’ Apelle, Bistolfi, Braque, Donatello II, El Greco, Marguerite Vernaut, Michelangiolo, Navarro, Nearco, Ribot, Scopas, Van Dick, tanto per citarne alcuni, e un’infinità di altri. Verosimilmente tale predilezione va ricondotta al talento per la pittura che fu uno degli hobby del Maestro.
Nel passato l’accorgimento di imporre la stessa lettera iniziale della madre ai figli foals fu molto utile. Oggi questa regola è poco seguita, ma aveva il sapore dell’affetto e il profumo dell’eleganza.
La scelta monotematica non fu certo un’esclusiva del solo Tesio, anzi è stata in passato una diffusa consuetudine adottata sia dai grandi complessi come da quelli di dimensioni ridotte o piccole: espressione di legami territoriali, di tradizione familiare, di attività professionali, ecc. Gli orientamenti mai erano casuali ma studiati. Cito a caso: la famiglia Mantovani, titolare della scuderia Mantova, si orientò sui termini veneti; Ettore Tagliabue fece riferimento ai prodotti nel campo della cosmesi; i Conti Tolomei titolari della Razza Pescaia legarono i loro puledri a località e altre realtà geografiche dei loro possedimenti nel grossetano; li imitarono i Ponticelli proprietari della Razza del Casalone; la Razza Oldaniga orientò la scelta su piante e fiori; il de Montel, la cui accesa ma leale rivalità con Tesio costituì uno dei motivi propulsori per il progresso dell’ippica italiana e fa storia, volle legarsi alle realtà territoriali della Brianza; la Razza di Vedano trasse l’ispirazione da battaglie e condottieri; la scuderia Aterno scelse i paesi dell’Abruzzo.
In ogni caso tutti i nomi avevano richiami oggettivi, erano tutti facili da leggersi e da ricordare per gli appassionati che ne seguivano le imprese sportive, esprimevano convinzioni lineari di elementare valenza educativa. Rispondevano, quegli orientamenti, a sentimenti di orgoglio linguistico senza essere contagiati da sciovinismo di alcun genere. In sintesi la dignità nel consesso internazionale dell’ippica si conquista anche con queste scelte ragionate.
Il panorama globale
Sono portato ad apprezzare l’educazione formale, vuoi per il carattere vuoi per disciplina familiare. Da qui la mia scelta, datata qualche lustro, di trascurare l’ippica nazionale, divenuta irrimediabilmente sciatta e malgovernata, per orientarmi verso le manifestazioni estere, sia quelle che hanno conservato i legami con le tradizioni araldiche garantendosi in tal modo un futuro coerente di consolidata eccellenza, sia le più recenti orientali le cui crescite non conoscono soste. Uno dei meriti, a fronte dei non pochi svantaggi, di cui mi sento debitore verso le tecnologie informatiche è l’essere rimasto sportivamente informato sui destini globali dei cavalli purosangue.
Si impone presentare una panoramica introduttiva, banale ma riassuntiva. La dissoluzione dell’impero sovietico nelle realtà nazionali dell’est europeo che l’avevano preceduto ha consentito il riaffacciarsi nell’arengo globale delle impoverite ippiche ex ‘statalizzate’ di nazioni di affermata tradizione, quali Ungheria, Cecoslovacchia, Austria. I meriti acquisiti nel passato ne fanno garanzia di successo, anche grazie a condizioni ambientali più che favorevoli all’allevamento quali l’estesa steppa pianeggiante ungherese tra i fiumi Danubio e Tibisco, la pustza.
Le Nazioni latine del Sudamerica, le cui agricolture si affidano ancora al latifondo, vantano anch’esse datate tradizioni ippiche parallele agli schemi selettivi europei. El Gran Premio Carlos Pellegrini che si corre in Argentina a partire dal 1887 viene considerato con ragione l’equivalente americano dell’Arc de Triomphe parigino. Quei paesi sono penalizzati dall’avere economie instabili e politiche traballanti, tali da non consentire i necessari adeguamenti dei premi a traguardo per risultare competitivi in rapporto ai sicuri meriti. Di conseguenza i loro mercati risultano facile preda degli insaziabili acquirenti arabi, giapponesi e statunitensi.
D’altra parte gli imperi coloniali inglese e portoghese avevano già seminato nelle rutilanti città dell’Estremo Oriente, da Hong Kong, a New Delhi, a Macao ecc. avvenimenti ippici che sono formidabili occasioni di richiamo nel calendario mondiale in virtù della qualità dei partecipanti e per le importanti monete che sono in grado di offrire. Sotto la sollecitazione dei miglioramenti economici e la passione sfrenata dei loro abitanti per il gioco queste realtà del pianeta hanno ampliato l’interesse per l’ippica a livelli imprevisti. Non costituisce una sorpresa la presenza nella classifica internazionale stilata per il 2017 di 12 soggetti attivi in Sud Africa valutati con un rating di 115 o superiore.
L’ippica Giapponese, per quanto più rivolta alla selezione statunitense per ragioni geografiche e scelte tecniche ha sviluppato un mercato sostenuto dai grandi capitali industriali rivolto con particolare attenzione a coltivare nel purosangue la professionalità, ossia la resistenza allo sforzo (stamina) piuttosto che la brillantezza. Tale indirizzo può sembrare anomalo, ma - trattasi di un nostro personale giudizio - garantirà il successo che spetta alle iniziative lungimiranti.
I paesi Arabi, in particolare gli Emirati del Golfo amministrati da esponenti di gerarchie nobiliari usciti dai selezionati college europei o americani, hanno il merito di aver trasferito, sul piano sportivo e con la dovizia che garantiscono le inesauribili fonti petrolifere, il legame tra le loro tradizioni nomadi militari e il cavallo.
L’ostinazione e l’orgoglio razziale dei popoli seguaci del Corano sono aspetti del carattere che vanno loro riconosciuti. Oltre alle mandrie di purosangue da corsa disseminate in tutti i continenti del pianeta in una gara economicamente insostenibile per altri privilegiati, i notabili arabi sono impegnati nel ripetere sui cavalli di razza arabica pura quei moderni criteri che condussero alla selezione per caratteri iniziata ad opera degli europei, in particolare gli inglesi, sui purosangue attuali. Non soltanto riguardo a favorirne le caratteristiche rivolte a migliorare la velocità, ma anche sostenendo, con dovizia di mezzi e passione, un settore specifico quello dell’endurance (resistenza su percorsi naturali).
La Pegasus Cup
A Gulfstream si è corsa la Pegasus Cup 2018, la prova per purosangue più ricca mai allestita in ottemperanza all’infantile concetto, tutto statunitense, che più denaro al traguardo e migliore risulta la qualità dei partecipanti. Il che corrisponde solo in parte: l’oggetto in esame ne è esempio lampante.
Se le grandi prove hanno un valore al fine del miglioramento della razza, la Pegasus non è tra queste: piuttosto è stata uno spettacolo circense costruito per ippici di bocca buona. Innanzitutto la distanza della prova: 1750 metri è talmente anomala, molto yankyee, costruita così da raccogliere la fascia degli intermediate, senza i quali numero e qualità dei partenti sarebbero scaduti. Altro segnale preoccupante il fatto che nessuno dei partecipanti ha accettato il discarico previsto per chi avesse rinunciato all’uso del lasix.
In mezzo a questa manciata di reduci delusi dal circuito classico americano un paio di prima serie autentici, Gun Runner (Candy Ride e Quiet Giant da Giant’s Caseway) e War Front, prenotavano i primi due posti al traguardo com’è poi avvenuto. La gloriosa incertezza del turf del tutto assente; non un brivido sportivo se non per gli ingenui. Che gli organizzatori della Cup abbiano ottenuto copertura mediatica e successo economico dalle vendite di gadges e partecipazione di pubblico non fa che confermare quanto sopra sostenuto: in questo periodo storico la pubblicità conquista gli impreparati e le menti deboli.
Ci rifiutiamo di condividere l’interpretazione esageratamente gridata, esasperatamente circense, di tutti gli sport in generale, men che meno per l’ippica che ne viene volgarizzata e danneggiata nei suoi indirizzi selettivi.
Senza nulla voler togliere a Gun Runner è privilegio della natura creare una tantum i campioni autentici. All’uomo il testarli.
Ad oggi Gun Runner, vincitore di 12 delle 19 corse disputate tra le quali le Breeder’s Cup Classic 2017 e valutato miglior elemento della leva 2014 statunitense, risulta essere il prodotto di gran lunga più qualitativo di Candy Ride. Ques’ultimo è nato nel 1999 in Argentina dove è stato champion miler nel 2002 prima di essere importato negli Stati Uniti terminando la carriera da imbattuto dopo sei corse. I suoi successi annoverano quattro graded di gruppo 1, il Gran Premio di San Isidro e il G. P. Internacional Joaquin S. de Anchorena in patria, l’American Handicap e il Pacific Classic dove a tempo di record ha battuto lo stimato Madaglia D’oro vincitore di 7 graded 1 nel 2017 e anch’esso attualmente impiegato allo stud.
Mi preme sottolineare nel pedigree di Candy Ride la presenza significativa in seconda generazione di sangue francese di grande classicità, espressa nel versante maschile da Herbager e da Blushing Groom in quello materno dove si inserisce, innestato sull’apporto considerevole di linfa latino-americana, il formidabile Nashua, Horse of the Year del 1955 negli Stati Uniti.
La penisola
Nel vocabolario italiano Devoto-Oli leggo la definizione che segue. Penisola: ciascuna delle sporgenze di notevoli dimensioni che articolano il contorno dei continenti.
La penisola italiana è una proiezione del continente europeo nella direzione di quello africano, quindi il suo territorio ha rappresentato la piattaforma di transito obbligato tra popolazioni di etnie e culture differenti. La collocazione intermedia ne incentiva i commerci e ne valorizza l’importanza strategica esponendo le popolazioni autoctone al controllo politico, palese o indiretto, dei popoli dell’entroterra continentale più coesi e forti etnicamente. L’influenza del genoma della tribù emerge come fattore divisivo, mai controbilanciato da un potere centrale adeguato. Il clima mediterraneo di cui gode ne accentua l’appetibilità territoriale. Questa è la composita realtà nazionale.
Ciò spiega i molti pregi e gli altrettanto numerosi difetti che si riscontrano nella popolazione italica, tali da esaltarne l’indolenza nel risolvere unitariamente e stabilmente i problemi.
Quando una situazione di equilibrio mostra le sue inevitabili ulcere secondo l’alternanza dei contrari sulla quale è stato realizzato questo universo perfetto nella sua dinamica imperfetta, l’uomo è obbligato a indirizzarsi nella direzione contraria alla precedente per mancanza di alternative praticabili. La natura è maestra. Fanno eccezione i sognatori e gli imbecilli, senonché anche questi ultimi sono funzionali all’inevitabile meccanismo. Inflazione economica porta indubbi vantaggi temporanei fino a che è necessario virare affinché la recessione faccia la sua parte positiva riaggiustando le storture precedenti. La storia ci insegna che anche i periodi bellici sono funzionali e che quelli di pace alla lunga infiacchiscono ed esigono molte vittime.
La lettura di un articolo relativo alla proposta di classificazione degli ippodromi italiani suggerita dal settore competente (???) del Ministero delle Politiche Agricole mi costringe alle suesposte osservazioni e alla filosofia spicciola conseguente.
Intravedo infatti nelle intenzioni della burocrazia politica una volontà di cambiamento della attuale situazione fallimentare dell’ippica nazionale tale da ricordarmi la nota espressione attribuita a Don Fabrizio Corbera, Principe di Casa Salina che suona sostanzialmente così: “Cambiare tutto affinché nulla cambi nella sostanza.” Il meccanismo espresso dalla consolidata formula ‘io do una cosa a te, tu dai una cosa a me? è troppo ben oliato. E quello che più conta sono gli altri chiamati a sopportarne il costo.
In altre parole, si vorrebbe attribuire uguali diritti alle due categorie in cui si distribuisce funzionalmente la specie umana, impegnati da un lato e parassiti dall’altro, con il sostenere, ipocritamente, che tutti (meritevoli e profittatori) sono figli di Dio in nome di una comune origine genica. La responsabilità collettiva sponsorizzata dai secondi mi risulta la giustificazione più biologicamente imbecille e più spiritualmente fallimentare che mente umana abbia mai sostenuto. Si eviti di citare, sarebbe a sproposito, l’apologo di Menenio Agrippa che è frutto della romanità classica.
Continuo caparbiamente a sostenere la validità della concezione ‘paolina’ che il lavoro - quell’invenzione umana che, se buona, i ricchi avrebbero conservato a loro stessi anziché cederla ai poveri (una sapida fiorentinata di un tal Carlo Chiarantini) - sia l’occupazione umana più dignitosa, il miglior modo per occupare il tempo di vita concesso a ciascuno. Ciò affermato senza tentennamenti, gli ippodromi gestiti da società di capitale privato che ne abbiano ottenuto l’uso in concessione dalla mano pubblica devono - non uso consapevolmente il condizionale - essere gestiti in primo luogo nel rispetto dei fini istituzionali previsti per tali impianti: adeguamenti strutturali periodici, dignitosa accoglienza verso le esigenze del pubblico, qualità delle corse programmate. Quindi, tanto per chiarire, niente ippodromi bifronti, contributi ai minimi e sub iudice. Su fondi pubblici potranno fare affidamento i soli ippodromi in grado di rispettare i parametri e indirizzare al miglioramento selettivo dei purosangue. Ad oggi solo Milano San Siro per la qualità delle corse e Pisa per i meriti ambientali ed i successi ricettivi e promozionali possiedono le potenzialità per entrare nella prevista fascia alta (impianti istituzionali). Tutti i numerosi altri dovranno sapersi autogestire o chiudere, financo l’attuale Roma Capannelle deturpato per l’insensata intromissione aliena.
E mai più ingressi gratuiti: sono un’ammissione volontaria di insufficienza dell’offerta.
SOMMARIO
Alle corse
Memoriali di troppo
Il Federico Caprilli
Mac Mahon
Mac Mahon. 2
Ramonti
Come conservare onore e guadagnare rispetto
Il panorama globale
La Pegasus Cup
La Penisola
Il punto è che a me piace quello che scrivi tu e a te piace quello che scrivo io. Si chiama: “l’erba del vicino è sempre più verde”!
Allora mettiamo che ti dò retta, per via del fatto che solletichi il mio ego già sproporzionato: prendo il tuo testo, lo “correggo” a modo mio. Viene una cosa che comincia così......
Alle corse-- C’è chi mostra fiducia, chi ubbidisce come un soldato e anche chi pare nervoso, e probabilmente lo è. Non dovremmo stupircene, in fondo sono cavalli purosangue.
Il problema, però, è che alla fine diventa un testo TUO, con parole MIE. Un disastro, tra parentesi proprio perchè sono convinto che a parole (scritte) tu sei molto meglio di me. Per es., hai un vocabolario enormemente più esteso e preciso del mio. E un disastro perchè la mia convinzione assoluta è che il pregio di un racconto, o di un libro, o di un film –ma probabilmente di una qualsiasi opera d’arte varia- stia nel fatto di rappresentare ciò che l’artista vuole che passi nella testa di chi legge (o vede): magari una sensazione, o una idea. O una opinione. O una storia, semplicemente. Magari una speranza.Viene una cosa che comincia così......
L’artista, nel caso di specie, saresti tu: che volevi che il tuo cliente (sarei, io) ricevesse una immagine in acquarello – non perchè ti interessa l’immagine, ma perchè vuoi che nella mia pancia si senta una sensazione, quella della corsa.
In questo racconto la sensazione si sente. Tranquillo!
Ora penserai che se il racconto lo scriveva Dostoevskij la sensazione si sarebbe sentita di più, e infatti.
Ma stai garantito, se lo scrive un altro qualsiasi NO – a meno che lui non abbia il desiderio che hai tu di far sentire un certo profumo (qua sarebbe quello del sudore dei cavalli, e di un vero appassionato).
Qualcuno è confidente, professionale direi, altri danno segno di nervosismo; qualcuno si irrigidisce con ostinazione e si difende prima di cedere alle pressioni degli uomini addetti. La riottosità, ritardando i tempi di attesa nello stallo di chi è entrato in precedenza, ne danneggia la prontezza di uscita e per questo potrà essere sanzionata. Altri vengono ingannati dal cappuccio. Dico dei purosangue prima della partenza. 64
C’è chi mostra fiducia, chi ubbidisce come un soldato e anche chi pare nervoso, e probabilmente lo è. Non dovremmo stupircene, in fondo sono cavalli purosangue prima della partenza.