Riviviamo la storia della Gran Corsa dell'Arno

Cominciò a Firenze

l'ippica moderna italiana

di Luigi Brighigna

Firenze non ha niente di ippicamente significativo se non il blasone. Come quegli stemmi medicei che ornano gli architravi di certi palazzi antichi, lisciati dall’azione degli agenti atmosferici, scalfiti e scheggiati, ma pur sempre segno di una nobiltà che incanta i turisti. Non è un dato che possa essere sottovalutato il blasone. Già, perché l’ippica moderna in Italia non nasce né a Roma né a Milano bensì proprio nel capoluogo della Toscana.

L’idea di organizzare corse di purosangue, manco a dirlo, l’ebbero i mercanti inglesi che avevano base commerciale al porto di Livorno, ma il merito di stare subito al gioco è vanto della nobiltà di Firenze. La prima Grande Corsa dell’Arno di cui si hanno cronache certe si tenne nel 1827 in quello che oggi viene chiamato il Prato del Quercione all’interno del Parco delle Cascine,.ben prima dunque della costituzione nel 1888 della Società Botanica Italiana sulle fondamenta della Società Botanica Fiorentina che, nata nel 1753 fu la prima società scientifica dell’intera europa. A riprova che in quei secoli Firenze era il faro della cultura continentale.

E proprio di fronte a quell’area dominata da un’enorme quercia, dalla quale lo separa il lungo vialone centrale alberato che taglia il parco per tutta la sua lunghezza, sorse in seguito l’attuale ippodromo del galoppo, detto del Visarno, cioé a vista d’Arno. Il fiume infatti scorre a poche diecine di metri. Questa è storia nota oramai soltanto a quei pochi superstiti tra i vecchi fiorentini appassionati di corse che il tram elettrico in uso nel primo dopoguerra scaricava davanti all’ingresso del settore secondario, il prato. Un annoso cedro del Libano era il centro dello spiazzo attorno al quale le verghe metalliche facevano un semicerchio consentendo al mezzo pubblico di affrontare senza manovre complicate il viaggio di ritorno. Allora l’ippica era viva e vitale, attirava ed entusiasmava. Erano quelli i tempi gloriosi nei quali la Razza Dormello Olgiata e la Razza del Soldo, ossia le due maggiori compagini milanesi impegnavano nel Premio Firenze i loro tre anni di punta destinati a cimentarsi poi nel Parioli o nel Derby delle Capannelle. Il Visarno si riempiva di spettatori attratti da splendidi campioni veri, ed era una festa per i non pochi appassionati e competenti. I colori delle scuderie più gloriose erano oggetto di tifo come oggi accade per il calcio; il rientro dei vincitori applaudito con entusiasmo da una gran folla come oggi continua ad accadere a Longchamp, Epsom o Tokio. L’ippodromo era strutturato con criterio, non come oggi dopo i tanti interventi dissennati che ne hanno stravolto la logistica. Era l’età dell’oro, che non può non essere ricordata con nostalgia. Eppure si usciva da una guerrà disastrosa per le nostre sorti, ma forse proprio per questo le intelligenze venivano sollecitate e si aveva una gran voglia di impegnarsi.

In quegli anni la supremazia nelle prove riservate ai gentleman era una questione monopolizzata da Clemente Papi, Luciano Mantovani e Carlo Carlini, instancabili nel far la spola tra San Siro e la Toscana. Papi aveva la statura bassa che gli consentiva di montare raccolto, con discreta energia e buon senso tattico. Di professione era magistrato, ma il tempo per gareggiare lo trovava sempre. Il secondo si sarebbe detto un ‘bietolone’: per la sua altezza doveva staffare lungo e mancava di coordinazione, però aveva tanti di quei cavalli in scuderia da poter disporre quasi sempre di un soggetto declassato. Insomma Mantovani era capace di perdere corse già vinte stando alla carta. Quante invettive e sberleffi gli ho visto incassare dagli scommettitori che lo apostrofavano minacciosi attorno al recinto del dissellaggio. Ma il suo volto, tutto sudato e paonazzo per lo sforzo appena sostenuto, conservava anche in quelle situazioni imbarazzanti la calma ed un vago sdegno signorilmente contenuto. Anche Carlini combatteva con un fisico longilineo, ma dei tre era sicuramente il cavaliere più elegante e dotato.

Una figura caratteristica di appassionato militante di allora era l’avvocato Crovetti, il titolare della scuderia dell’Oleandro. Rosa e verde I colori della sua scuderia. Come dimenticare quella bizzarra figura di snob che si intestardiva ad indossare tight e cilindro in occasione della Gran Corsa dell’Arno, quasi fossimo ad assistere alla madre di tutte le corse, il Derby di Epsom. Passava, Crovetti, tra la plebe ignorante e irriguardosa come un merlo lucido e nero zampetta tra beceri passeri attaccabrighe, affatto curandosi d’essere figura dignitosa sì ma anacronistica in un’ippica che procedeva a grandi passi verso la lunga fase degradante e volgare.

Mi rivedo nell’anno in cui il romano Prajapati, l’ultimo nella scala dei pesi, vinse l’Arno per la scuderia Atomica. Si arrivò all’ippodromo con il sole, nulla facendo presagire quel che sarebbe successo a metà del pomeriggio. Ma andiamo per ordine. Quel giorno la folla era strabocchevole e le piccole tribune d’anteguerra straripavano, utilizzate da quanti, per lo più le signore, preferivano un sicuro posto a sedere non lasciandosi invogliare dalle quote esposte ai ‘picchetti’. Pochi minuti prima della corsa cli centro, quando già i cavalli erano stati lasciati liberi dopo la sfilata, il cielo si rabbuiò e incominciò a piovere. Ma che dico, dall’alto scese un diluvio. E non era una precipitazione prevista, per cui in pochi ebbero di che ripararsi convenientemente.

Se la competizione tra i cavalli in pista aveva per meta il traguardo, un’altra non meno selettiva interessò tutti noi che stavamo facendo la spola tra il tondino di presentazione ed i botteghini delle scommesse, all’istante messi nella necessità di raggiungere uno dei pochi spazi riparati ancora disponibili. Solo un manipolo di prepotenti e qualche fortunato ospitato fra mezzo ai parenti ci riuscì. Naturalmente io rimasi ‘fuori dai premiati’. Allora presi una delle più coraggiose iniziative della mia vita: se bisognava bagnarsi, che almeno ne valesse la pena; e mi avventurai lungo lo steccato dove non c’era anima viva e si godeva una vista perfetta dell’intera retta d’arrivo. Tra l’indifferenza dei più, forse disapprovato da qualche madre di famiglia che temeva il cattivo esempio offerto ai suoi figli. Compatibilmente con le condizioni meteo seguii la corsa meglio di qualunque altro. Fu un gesto temerario e alquanto sciocco per le conseguenze che avrebbe potuto avere.

Poi venne il tremendo 4 novembre del 1966. Recedendo, la massa d’acqua alluvionale che aveva sommerso Firenze vi lasciò una maschera di fango senza soluzioni di continuità. Dopo quell’invasione di limo le piste del Visarno non sono state più le stesse, perdendo l’elasticità necessaria. L’erba ancora oggi a distanza di trent’anni e più vi cresce malamente.

In quel tragico evento tante realtà erano state colpite a morte e tra esse l’ippica bella e viva del primo dopoguerra a Firenze fu consegnata alla storia passata in quelle immagini dolorose del Visarno disastrato.

Oggi è cambiato quasi tutto, fuori di noi e, quel che preoccupa di più, dentro di noi. Quella velocità che fu esaltata dal Marinetti ci ha, maledetta, strappato l’anima e volgarizzato ogni cosa. Siamo alla mercé delle furie. Anche la Corsa dell’Arno ha cambiato proposizione come di dice nel gergo tecnico.

Ma la tradizione conserva le sue attrattive e vuole che le abitudin siano rispettate: il giorno della Corsa dell'Arno tanti fiorentini, appassionati o semplicemente curiosi, affolleranno iL Visarno. Di questo si può essere certi. Siamo in primavera e, come cantava diversi anni addietro Odoardo Spataro, I prati verdi delle Cascine si riempiono di gioventù spensierata.